jueves, 31 de julio de 2014

ANGELICA 
Don Calogero si avanzava con la mano tesa e inguantata verso la principessa: “Mia figlia chiede scusa: non era ancora del tutto pronta. Vostra Eccellenza sa come sono le femmine in queste occasioni”, aggiunse esprimendo in termini quasi vernacoli un pensiero di levità parigina. “Ma sarà qui fra un attimo; da casa nostra sono due passi,come sapete”. 
L’attimo durò cinque minuti; poi la porta si aprì ed entrò Angelica. La prima impressione fu di abbagliata sorpresa. I Salina rimasero col fiato sospeso; Tancredi si sentì addirittura come gli pulsassero le vene nelle tempie. 
Sotto l’urto che ricevettero allora dall’impeto della sua bellezza, gli uomini rimasero incapaci di notare, analizzandola, i non pochi difetti che quella bellezza aveva; molte dovevano essere le persone che di questo lavorio critico non furono capaci mai. Era alta e ben fatta, in base a generosi criteri; la carnagione sua doveva possedere il sapore della crema fresca alla quale rassomigliava, la bocca infantile quello delle fragole. Sotto la massa dei capelli color di notte avvolti in soavi ondulazioni, gli occhi verdi albeggiavano immoti come quelli delle statue e, com’essi, un po’ crudeli. Procedeva lenta, facendo roteare intorno a sé la ampia gonna bianca e recava nella
persona la pacatezza, l’invincibilità della donna di sicura bellezza. Molti mesi dopo soltanto si seppe che nel momento di quel suo ingresso vittorioso essa era stata sul punto di svenire per l’ansia. Non si curò del Principe che correva verso di lei, oltrepassò Tancredi che le sorrideva trasognato; dinanzi alla poltrona della Principessa la sua groppa stupenda disegnò un lieve inchino, e questa forma di omaggio, inconsueta in Sicilia, le conferì un istante il fascino dell’esotismo in aggiunta a quello della bellezza paesana.

IL GATTOPARDO
di Giuseppe Tomasi di Lampedusa



I libri delle vacanze. Come imparare a odiare i classici

Alla fine dell’anno scolastico i professori assegnano le letture secondo un «canone» immutabile che privilegia autori del ’900: perché non cambiare?

C’è un fenomeno curioso che si ripete intorno al solstizio d’estate, ma non riguarda l’astronomia. A giugno, nelle classifiche dei libri più venduti – solitamente prive di sorprese – si affacciano regolarmente tre o quattro titoli di Italo Calvino, sempre gli stessi, e Se questo è un uomo di Primo Levi. Che succede? Niente di speciale: letture consigliate (o imposte) dalla scuola per le vacanze. Se compaiono fra i best-seller, è segno che la scelta degli insegnanti italiani è di massa: la trilogia degli Antenati – Il barone rampante, Il visconte dimezzato, Il cavaliere inesistente – e il grande e terribile romanzo testimoniale di Levi sulla Shoah costituiscono da più di quarant’anni le punte del canone scolastico.  

Non sarà arrivata l’ora di aggiornarlo? Suggerire una lettura agli adolescenti è una responsabilità: quando si azzarda, si corrono parecchi rischi. Come ha dimostrato nei mesi scorsi il caso Mazzucco – al liceo Giulio Cesare di Roma sollevò un vespaio la scelta del romanzo Sei come sei, storia d’amore omosessuale – è facile urtare la sensibilità dei ragazzi e ancor più delle famiglie. Oltre a quella, naturalmente sempre viva, degli ipocriti. Ma bisogna mettersi nei panni dei professori: condizionati dalla missione pedagogica, cercano testi, se non rassicuranti, sicuramente non ambigui, rodati da una lunga tradizione di lettura. In una parola, inattaccabili.  

Dopo il 1865, a ogni libro che entrasse in aula doveva essere riconosciuta l’«utilità per le scuole». La discussione sul canone era accesa; la triade ideologico-pedagogica a cui ispirare le scelte, solenne: Dio Patria Famiglia. Nomi di autori che oggi non ci dicono più niente – Pandolfini, Alberti, Segneri, Lambruschini, Abba – erano considerati essenziali per illustrare ai ragazzi le virtù della famiglia e il buon costume. L’accigliato Girolamo Tagliazucchi pubblicò nel 1882 un saggio intitolato Della maniera d’ammaestrare la gioventù nelle umane lettere, nel quale invitava a sottoporre agli studenti soltanto opere «nette da ogni scostumatezza». La Mazzucco non sarebbe stata ammessa. Sembrano toni arcaici, ma non è così: la sfortuna postuma di Alberto Moravia non è forse dovuta al suo mancato ingresso nel canone scolastico? Troppo sesso. Per fortuna ci pensano gli americani a rivalutare un autore omaggiatissimo in vita e poi accantonato. La rivista «Publishers Weekly» ha inserito nella sua lista di consigli per l’estate 2014 Agostino in una nuova traduzione inglese. Cento pagine perfette, assicura la rivista – ed è vero. Il libro di Moravia ha settant’anni esatti – uscì nel ’44 – ma non li dimostra, e dubito che questa storia di iniziazione sessuale, tutto sommato casta, possa turbare un giovane lettore di oggi.  

Sarebbe tuttavia sciocco ridurre il discorso del canone scolastico a una questione di rossori e pruderie. C’è in gioco molto altro. Compresa una domanda sibillina: a uno scrittore, entrare nel canone scolastico fa bene o fa male? Si direbbe faccia bene, giudicando dai numeri. Lavorando sui dati di circa 400 librerie indipendenti italiani, un giovane studioso, Gabriele Sabatini, ha fatto alcune scoperte interessanti. Se nel 2012, in proiezione, Agostino di Moravia aveva venduto intorno alle 2 mila copie, Il barone rampante di Calvino ne aveva vendute oltre 21 mila. È l’effetto compiti delle vacanze, confermato dal fatto che un libro fuori dal canone scolastico come Palomar ha venduto molto meno. Il povero Gadda dell’arduaCognizione del dolore si ferma sotto le 2 mila copie annue. Certo è che la consacrazione sui banchi non ha solo effetti positivi: inevitabilmente porta con sé una patina istituzionale, un po’ grigia, che rischia di trasformare anche il più godibile dei romanzi in un obbligo indigesto. Accade così che, usciti da scuola, si pensi a Calvino come a un autore per ragazzi e all’opera di Primo Levi come qualcosa di inavvicinabile. Assegnare Se questo è un uomo per l’estate è un errore: senza un sostegno, una guida, una discussione, è tutto tranne che una lettura da fare a sedici anni, di corsa e svogliatamente, negli ultimi giorni di vacanza. Non si potrebbe osare di più? Fare una sorta di assemblea di classe a inizio giugno, scegliere insieme agli studenti da una rosa di titoli meno prevedibile. Oppure organizzare una spedizione in libreria dei singoli ragazzi: che siano loro a proporre. E ancora: siamo sicuri che d’estate gli studenti debbano leggere esclusivamente narrativa? E se scegliessero un saggio su un tema che li appassiona? Un saggio scientifico, filosofico, un testo giornalistico; qualunque cosa – in formato digitale, volendo – che metta in moto il pensiero e tenga la lingua allenata non solo per i baci.  

Il vecchio e sterile slogan sul «piacere della lettura» non ha nessun effetto: è ora di abbandonarlo, e di concentrarsi sulle ragioni per cui vale la pena leggere. Non in generale, ma in particolare: quel libro, quel testo, quell’autore. Ricominciamo dai perché più infantili. Se ai professori chiedessimo perché leggere Il barone rampante, saprebbero dare risposte convincenti? Ripartiamo da lì, e i ragazzi a settembre tornino in classe senza riassunti e commenti. Pronti solo a contraddire o a confermare quei «perché», e magari – sarebbe una sorpresa – a proporne di nuovi.  

"La punteggiatura è proprio ciò che porta la musica del parlato nel testo scritto: la sospensione leggera della virgola, quella più forte e decisa del punto, la sospensione dei tre puntini". 
Emilio Tadini

lunes, 21 de julio de 2014


Perché la maglia dell’Italia è azzurra?



Era il 6 gennaio 1911 quando l’Italia indossò per la prima volta la maglia azzurra in occasione della partita amichevole contro l’Ungheria: il motivo della scelta del colore è da ricollegare ai Savoia, l’allora casa regnante italiana, nel cui stemma nobiliare c’era, appunto, una fascia azzurra.
In seguito a quella partita, l’azzurro divenne il colore ufficiale, eccetto in alcune occasioni: per le Olimpiadi di Berlino del 1936, Mussolini ordinò di indossare le maglie nere, con lo stemma del Fascio Littorio, in segno di scherno ai francesci, e lo stesso avvenne per i Mondiali vinti nel 1938.
Dopo la fine della guerra, nel 1946, si scelse di tornare all’azzurro nonostante l’esilio dei Savoia per via del passaggio alla Repubblica dell’Italia in quanto il colore era ormai considerato propiziatorio.

miércoles, 16 de julio de 2014

Il cervo e la vite

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Tratto dalla fiaba di Esopo.
Era una mattina di primavera. Il sole brillava alto in un cielo azzurro e limpido mentre un gruppo di uccellini ciangottavano allegramente tra i rami di un'alta quercia. Un bellissimo cervo dal manto splendidamente fulvo, brucava tranquillo l'erba di una vasta distesa situata ai confini di una piccola fattoria. Proprio quel giorno un grande orso e un vecchio cane decisero di catturare un cervo da tenere rinchiuso nel recinto del podere per allietare i loro cuccioli. Cosi, vagando tra i campi, videro quasi per caso l'animale che pascolava sereno.
Senza perdere tempo gli corsero incontro per agguantarlo ma fortunatamente egli, comprendendo al volo la situazione, si lanciò in una corsa sfrenata per sfuggire alle loro insidiose grinfie. Poco distante cresceva, placidamente accarezzata dai caldi raggi del sole che dominava il cielo, una magnifica vite selvatica ricolma di fronde e grappoli di un'uva succosa e matura.
Il cervo decise di nascondersi all'ombra di quel folto intrico di foglie, sicuro che nessuno sarebbe mai riuscito ad individuarlo. Infatti, quando l'orso e il cane passarono non furono in grado di vederlo e andarono oltre. Tranquillizzato per lo scampato pericolo, l'animale tirò un sospiro di sollievo e, allettato dal buon profumo che emanava la vite, iniziò a mangiucchiare i suoi grappoli d'uva e le sue gustose foglie.
Fu proprio in quel momento che il cane si accorse della sua presenza: ascoltando con attenzione egli aveva potuto distinguere quello strano rumore e, tornando sui suoi passi riuscì a scorgere il cervo che masticava la vigna incurante del pericolo. Per la preda non vi fu più scampo. I due cacciatori gli balzarono addosso e lo catturarono senza difficoltà trascinandolo fino alla loro fattoria.
Da quel giorno in poi, il povero cervo fu costretto a pascolare solo all'interno di un recinto divenendo un'attrazione per i cuccioli che lo ammiravano divertiti. E tutto a causa della sua golosità.
A volte, le premature certezze, si trasformano in delusioni molto pericolose. Non bisogna mai sottovalutare il pericolo finché esso non è realmente passato.

La meravigliosa storia di Pasqualo e Alice

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In mezzo all'oceano vivevano due creature, una grande grande e l'altra piccolissima, Pasqualo e Alice.
Pasqualo era un pesce lungo venti metri e pesante trecento quintali, mentre Alice era una sardina lunga dieci centimetri e pesante venticinque grammi. Ogni giorno, tutti e due se ne andavano a spasso per l'oceano, ognuno per conto proprio, a cercare da mangiare.
Pasqualo usciva da solo e non aveva paura di nulla, mentre Alice andava in branco insieme alle altre amichette sardine, stando ben attenta ai pesci più grossi e ai mille pericoli di quel luogo grande e blu. Ma un bel giorno, mentre cercava il suo pranzetto quotidiano, Alice si trovò sola in mezzo al mare.
"Amiche, amiche...dove siete?" gridò spaventata. "Venite a prendermi, ho paura..." Non veniva nessuno, Alice si era persa. Così, la povera sardina impaurita si mise a piangere ma le sue lacrime non erano che goccioline nell'oceano.
Dopo qualche ora, iniziò a fare buio e Pasqualo, che stava ritornando nella sua tana per dormire, passò dal pezzo di mare in cui Alice si trovava ancora a piangere. "Guarda, guarda" pensò. "Ho già mangiato e non ho più fame, ma questa sardina è talmente piccola che non farò indigestione."
D'un tratto, Alice vide la grossa ombra dello squalo che si avvicinava e, terrorizzata, disse: "ti prego, non farmi del male. Mi sono persa, non trovo più le mie amiche..." Allora lo squalo le rispose: "lo sai che non puoi chiedermi questo, vero? Sono Pasqualo, lo squalo più squalo di tutti" e aprì la bocca per divorare la piccina. Ma Alice lo guardava con gli occhioni spalancati, così Pasqualo, all'ultimo momento, le chiese come si chiamava. E Alice gli raccontò la sua storia.
Grande e grosso com'era, Pasqualo ebbe pietà e decise di prendere con sé la piccola amica. Da quel momento iniziò per entrambi una vita nuova. Pasqualo e Alice facevano tutto insieme e non si lasciavano mai, fino a quando si innamorarono l'uno dell'altra. I pesci che li vedevano in coppia non riuscivano a capacitarsi: "ma come?! Uno grande e l'altra piccola!" diceva uno. "Un cacciatore con una preda!" diceva l'altro. "Questa storia è destinata a finire male" diceva l'altro ancora. E tutti scuotevano la testa. Ma Pasqualo e
Alice non se ne curavano, si volevano bene e niente poteva dividerli.
L'oceano è un posto talmente grande che non tutti sono uguali. Ancora oggi c'è infatti qualcuno che, vedendo lo squalo e la pesciolina nuotare insieme, coda nella coda, si commuove: "è proprio vero che l'amore non conosce lunghezza o peso, colore o aspetto. Che importa preda o cacciatore, l'amore vince su tutto!"
volpe-anatra

La volpe e l'anatra


C'era una volta una giovane volpe che affamata se ne andava in giro in cerca di cibo. Lungo la strada scorse un casolare, al di fuori di esso vi era una piccola anatra che felice se ne stava beata in prossimità di un fresco ruscello.
La volpe avvistato l'animale si avvicinò circospetta e con fare gentile gli chiese.
"Come ti chiami bella anatra? "
" Mi chiamo Polly , la mia famiglia mi alleva con dedizione e tanto amore" dichiarò orgogliosa.
La volpe rassicurata dal fare cordiale dell'anatra replicò:
"Al di là della valle dimora un uomo molto ricco, egli ha grande fiducia in me, per questo mi ricompensa con dieci denari al giorno e campo da gran signore".
" Davvero? " - rispose incuriosita la piccola anatra - "
Bene, perché non ci porti anche me, vorrei anch'io guadagnare un po' di denaro.
"Certamente" - rispose soddisfatta la volpe -" Sarò ben lieta di accompagnarti".
Così terminata la conversazione, si diedero appuntamento per il giorno dopo al di là del piccolo ruscello.
La mattina seguente, l'astuta volpe, si posizionò dietro un folto cespuglio, pronta a tendere l'agguato alla povera anatra, già pregustava l'appetitoso pranzetto, sicura che da lì a poco avrebbe portato a termine l'inganno.
L'anatra non tardò ad arrivare, ma avvedutamente si presentò dall'altra parte della strada, con accanto a sé il suo fedele padrone, il quale teneva in mano un grosso fucile. L'uomo individuato l'animale, iniziò a sparare dei sonori colpi in aria, così da far correre in tutta fretta la volpe, che se la diede a gambe elevate dileguandosi al di là del bosco, rimanendo così a bocca asciutta.

domingo, 13 de julio de 2014

RICETTA PER FARE LA MASSA DELLA PIZZA...





Ingredienti per 4 pizze del diametro di 30 cm (idratazione al 60%)

  •  600 ml circa di acqua tiepida
  •  20 gr di sale
  •  12 gr di lievito di birra
  •  1 kg di farina tipo 0
  •  2 cucchiaini di zucchero
Disponete la farina a fontana su di una spianatoia e formate un avvallamento al centro. Prendete una ciotolina di vetro, versateci dentro: 150 ml d'acqua tiepida, il lievito di birra sbriciolato e lo zucchero. Mescolate bene fino a fare sciogliere il tutto e versatelo al centro della farina (nell'avvalamento creato prima).
Iniziate a mescolare gli ingredienti, in maniera da ottenere una sorta di crema soffice. Fatto questo in altri 150 ml di acqua tiepida, sciogliete bene 20 gr di sale (tenete presente che questo passaggio è molto importante, perchè se il sale non è ben sciolto potrebbe deteriorare molto l'impasto) e inseriteli nella farina.
Impastate il tutto integrando mano a mano la restante acqua tiepida e se necessario un pò di farina fino ad ottenere un impasto compatto, liscio e morbido, quindi formate una palla e mettetela in una capiente ciotola infarinata, copritela con un canovaccio e lasciatela lievitare in frigorifero per ben 24 ore a non più di 4°. Evitate di riporlo nei piani alti, in quanto potrebbe essere esposto più facilmente a bruschi sbalzi di temperatura, meglio metterlo in basso.
Per formare il disco prendete una pallina e adagiatela su una spianata cosparsa di farina, iniziate a schiacciarlo con le dita partendo sempre dalla zona centrale e andando verso l'esterno, evitate di tirarlo dai bordi. Giratelo più volte su se stesso, avendo cura ogni volta di infarinare il piano dove lavorate. Ricordatevi che il bordo deve essere alto circa due o tre centimetri, mentre la parte centrale deve essere al massimo di mezzo centimetro.
I panetti che vi avanzano li potete conservare in un vassoio con chiusura ermetica in un luogo tiepido e privo di correnti d’aria.

Pizza Margherita


La vera storia della Pizza

chi ha inventato la pizza, l'origine della pizza, dove e come nasce la pizza


storia-della-pizza3Chi ha inventato la pizza? Come nasce la pizza? e dove nasce?
Per cercare di rispondere a tutte queste all'apparenza semplici domande, bisogna ripercorrere la storia della pizza e dei suoi ingredienti a partire da molto lontano... infatti molte migliaia di anni fa, alle origini della storia, l'uomo diventava agricoltore e raccoglieva i chicchi di grano e quando ne aveva bisogno se ne nutriva.
In seguito l'uomo scoprì che poteva anche impastare quel grano con l'acqua, e arrostire quell'impasto, a forma di disco su pietre roventi.
I primi che fecero questa procedura aprirono la strada alla conquista del pane, delle schiacciate, delle pizze per come le conosciamo oggi. Da questa considerazione possiamo dire che pane, focacce sono all'origine della pizza e rappresentano la radice stessa della nostra civiltà.

Il grande passo successivo fu quando venne scoperto il principio della lievitazione, e fu inventato il primo forno per una cottura molto più comoda rispetto al passato. Questo avvenne circa seimila anni fa, in Egitto nella zona della mezzaluna fertile, dal Nilo all'Eufrate.
C'era stato chi aveva notato che l'impasto, veniva a volte invaso da forze misteriose che lo facevano gonfiare e poi guastare. Alcuni consideravano impura quella pasta e la buttavano, altri invece pensarono di studiare il fenomeno e di sfruttarlo: tutto dipendeva dalle concezioni religiose dell'epoca. Gli ebrei, per esempio, rifiutarono sempre il pane lievitato e nei loro riti non era ammesso. Gli egizi invece impararono ad utilizzare quella pasta e a cuocerla. Gli egiziani inventarono il forno, questa è un informazione certa, che era a forma di cono.

storia della pizza4Arrivando in Italia a Napoli, verso il Mille, si parla di primitive schiacciate chiamate “lagano”, e compare anche il termine “picea”, forse per indicare una preparazione diversa, nel senso di avere già il disco di pasta coperto da ingredienti colorati prima di infornare il disco di pasta.
Successivamente compare il termine pizza, non dimenticando però che il termine pizza indica anche oggi nel sud d'Italia non solo la classica pizza, ma anche dischi di pasta ripienifocacce ripiene, o preparazioni analoghe.
Da segnalare anche che nel Seicento, in un'operetta napoletana, chiamata il Cunto de li Cunti, c'è una storia intitolata "Le due pizzelle".

Ma per veder comparire finalmente la pizza per come siamo abituati a riconoscerla ai giorni d'oggi bisogna ancora aspettare il Settecento e il motivo di questo ritardo è lo stesso che presiede la nascita degli spaghetti al pomodoro, ovvero, perchè il pomodoro in Europa non esisteva fino a quando non venne introdotto dall'America e quindi fino alla scoperta dell'America nel 1492. Da quella data passò ancora un secolo e mezzo prima che gli europei scoprissero le virtù del pomodoro in cucina e i napoletani in particolare ne facessero una loro bandiera culinaria.
Quindi solo in tempi recentissimi rispetto alle migliaia di anni che abbiamo descritto prima, che nascono la pizza al pomodoro e gli spaghetti al pomodoro.
Verso la fine del Settecento dunque si comincia a distinguere la pizza a Napoli prima che spicchi il suo volo nel mondo. Arrivando poi al 1830 per avere notizia dell'esistenza di una pizzeria vera e propria (fino allora i pizzaioli avevano solo dei banchi all'aperto) che viene considerata la prima pizzeria nata a Napoli, detta Port'Alba, perché si trovava a fianco dell'arco che da piazza Dante immetteva in via Costantinopoli.

Nell'estate del 1889 accadde un episodio celebre. il re Umberto I con la regina Margherita, trascorsero l'estate a Napoli nella reggia di Capodimonte, per fare atto di presenza nell'antico regno delle due Sicilie. La regina era incuriosita dalla pizza che non aveva mai mangiato e di cui forse aveva sentito parlare da qualche scrittore o artista ammesso a corte.

Ma non poteva andare lei direttamente in pizzeria, così la pizzeria andò da lei; fu chiamato a palazzo il più rinomato pizzaiolo del tempodon Raffaele Esposito, titolare della rinomata pizzeria Pietro il Pizzaiolo, che si trovava alla salita Sant'Anna.

Don Raffaele utilizzando i forni delle cucine reali, assistito dalla moglie donna Rosa, preparò una pizza speciale con mozzarella, pomodoro e basilico, cioè con i colori della bandiera italiana, che entusiasmò in particolare la regina Margherita, e non solo per motivi patriottici.

Don Raffaele, colse al volo l'occasione e chiamò questa pizza "alla Margherita", il giorno dopo la mise in lista al suo locale ed ebbe come si può immaginare innumerevoli richieste.

Poi con il tempo le due pizze che hanno fatto più strada sono la cosiddetta pizza alla napoletana, uguale alla pizza margherita ma con l'acciuga e la stessa margherita.

Per chi viaggia spesso e desidera gustare la vera pizza napoletana direttamente nei territori di origine, si consiglia un bel Viaggio a Napoli

I VERSI DEGLI ANIMALI

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Quali sono in italiano i verbi che si usano per descrivere il verso degli animali?
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sábado, 12 de julio de 2014

LA BELLA SCONOSCIUTA

Una sera mi trovavo in viaggio in una città straniera e lontana. Era l’ultimo giorno che passavo in Russia e
mentre aspettavo il treno che doveva riportarmi in Italia e cenavo nel ristorante della stazione, notai, a un
tavolo poco lontano dal mio, una bellissima e giovanissima donna sola. “Peccato, pensai, non la rivedrò mai
più in vita mia. Fra poco un oscuro treno addormentato mi riporterà veloce verso il caldo cielo d’Italia, e mai
più rivedrò i begli occhi e la fronte serena di questa donna che avrei tanto amata, se l’avessi incontrata
prima.”
Raggiunsi il mio posto nel vagone-letto, feci preparare la cuccetta e mi addormentai. Il giorno dopo, mentre
mi recavo al vagone-ristorante, con altri viaggiatori, vidi con sorpresa la bellissima sconosciuta che leggeva
in una cabina sola. Poi la intravidi un momento alla stazione dove io cambiavo treno, ma tra la folla, la persi
subito di vista; né del resto avrei potuto seguirla. Alla frontiera tedesca durante il controllo dei bagagli, chi
mi trovo vicino? La bella sconosciuta. Purtroppo un asino di doganiere mi fece perdere tempo e non potei
vedere verso quale binario andava. A Berlino cambiai nuovamente treno e quando andai a far colazione nel
vagone-ristorante, chi vidi a un tavolo in fondo? La bellissima sconosciuta. Ma lei non si accorse nemmeno
di me. Nel suo scompartimento non c’era posto. Perciò, abbandonai la partita, immaginando che sarebbe
scesa a una qualunque delle stazioni che toccavamo. A Firenze non pensavo più alla bella viaggiatrice,
quando, sceso per comprare dei giornali, la vidi affacciata a un finestrino del mio stesso treno. In breve, la
rividi, potete immaginare con che gioia, a Roma, che era la mia meta finale. “Qui – dissi – non mi sfugge”.
Prese un taxi, io ne presi un altro e la seguii. E immaginate la mia sorpresa, quando la vidi scendere al
portone di casa mia. Feci le scale dietro di lei, con crescente meraviglia. Era la porta del mio appartamento.
In breve: si trattava della figlia d’una compagna di collegio di mia madre, che veniva ospite nostra. L’ignota
viaggiatrice intravista nella lontana stazione d’una città sperduta nella Russia, fugacemente apparsa in una
sera di partenza, tra i mille passanti d’un paese dove non sarei più tornato, divenne mia moglie.

[Achille Campanile, Se la luna mi porta fortuna, Rizzoli, Milano 1960]

Brutti fuori, belli dentro: la bellezza interiore

Bella e la Bestia
Un antico insegnamento ci raccomanda di ricordare che non conta come si è fisicamente, ma, al contrario, (come il Brutto Anatroccolo alla fine diventa cigno) la vera bellezza è quella dell'animo. Quindi, che si può e si deve amare una persona per le virtù e le qualità umane, e che non ha nessuna importanza se questa persona non è esteticamente attraente. Un tema universale, probabilmente uno dei più ricchi di significato, questo, sempre valido, che la fiaba della Bella e la Bestia da secoli ci insegna; e come essa, molti altri bellissimi racconti, ricchi di sentimento e importanti spunti di riflessione sempreverdi.
Per non dimenticare!!!
CAPPUCCETTO ROSSO
C'era una volta una ragazzina dolce e buona; tutti quelli che la vedevano l'amavano, ma specialmente sua nonna, che non sapeva più cosa regalarle. Una volta le diede un berrettino di velluto rosso, e siccome le stava così bene e la bambina voleva indossarlo sempre, cominciarono a chiamarla la piccola Cappuccetto Rosso. Una volta la mamma le disse: "Vieni, Cappuccetto Rosso. Qui c'è una porzione di torta e una bottiglia di vino: prendili e portali alla nonna, che è a letto, debole e malata; le faranno tanto bene. Comportati come si deve e portale i miei saluti. Fa' la brava, non allontanarti dal sentiero, e sta' attenta a non far cadere la bottiglia, altrimenti si romperà e per la nonna non resterà più niente. E quando entrerai nell'ingresso, non dimenticarti di darle il buongiorno e non metterti a curiosare dappertutto come fai di solito." "Mi comporterò bene" rispose Cappuccetto Rosso, stringendo la mano della mamma.
La nonna abitava nella foresta, a mezz'ora dal villaggio; quando Cappuccetto Rosso entrò nel bosco, fu avvicinata da un lupo, e, siccome ella ignorava che esistessero animali cattivi, di lui non ebbe paura. "Buongiorno, piccola Cappuccetto Rosso." "Grazie, lupo." "Dove te ne vai, così di buon'ora?" "Dalla nonna." "Cosa porti nel grembiule?" "Torta e vino per la nonna che è a letto malata. La mamma l'ha sfornata ieri, e insieme al vino le ridarà un pò di forze." "Senti, Cappuccetto Rosso, dove vive tua nonna?" E Cappuccetto Rosso rispose: "la sua casa si trova a più di un quarto d'ora da qui, nel bosco, sotto le tre querce: c'è una siepe di noccioli laggù; penso che tu conosca il posto." Il lupo pensò tra sé: 'Questa bambinetta sarebbe un bocconcino prelibato per me, avrà un sapore di gran lunga superiore a quello della vecchia! Fatti furbo, vecchio mio, e cadranno tutte e due in trappola." Allora, si mise ad accompagnare Cappuccetto Rosso per un piccolo tratto di strada, dicendo: "Ehi, Cappuccetto Rosso, guarda laggiù, che bei fiori colorati: perché non ne raccogli un po'? E senti che belle canzoncine stanno cinguettando gli uccellini! Stai camminando come se stessi andando a scuola, pensa invece che stai facendo una passeggiata in questo bel bosco." La piccola Cappuccetto Rosso aprì gli occhi e quando vide i raggi del sole giocare a rimpiattino con gli alberi e il bel prato tutto ricoperto di bellissimi fiori, pensò: 'Ma sì, penso che alla nonna farebbe piacere se le portassi un bel mazzolino di fiori, e poi, è ancora presto: tornerò a casa in orario.' Così, abbandonò il sentiero maestro che portava nella foresta, per chinarsi a raccogliere i fiori; ad ogni fiorellino che coglieva, pensava che di lì a poco ne avrebbe trovato uno ancora più bello, così, finì per addentrarsi sempre più nel fitto del bosco. Nel frattempo, l'astuto lupo corse dritto a casa della nonna e bussò alla porta. "Chi va là?" "Sono io, la piccola Cappuccetto Rosso: sono venuta a portarti un po' di torta e del buon vino, apri la porta." "Spingi il chiavistello," gridò la nonna, "io sono troppo debole per alzarmi." Il lupo spinse il chiavistello ed aprì la porta; avanzò nella stanza, e si diresse dritto al letto dell'ammalata e se la pappò in un boccone; poi, si mise addosso i suoi abiti e la cuffia, s'infilò nel letto e chiuse le tende. Frattanto Cappuccetto Rosso si era persa dietro ai fiori; dopo che ne ebbe fatto un bel mazzo, tanto grosso che non entravano più nel grembiule, si ricordò, finalmente, della nonna, e riprese la via verso casa sua. Con sua sorpresa, trovò la porta aperta. Entrò nell'ingresso, e notò un'aria strana in casa, che pensò: 'Oh santo cielo, di cosa ho paura? Di solito mi piace venire qui." E disse a gran voce: "Buon giorno!" ma nessuno rispose. Allora andò in camera da letto e aprì le tende. La nonna era sdraiata con la cuffia sulla faccia e aveva un aspetto molto strano.
"Oh, nonna, ma che orecchie grandi che hai!" - "E' per sentirti meglio, mia cara!"
"Ma nonna, che occhi grandi che hai!" - "E' per vederti meglio, tesoro!"
"Nonna, ma che mani grandi che hai!" - "Ma è per abbracciarti meglio!"
"Ehi, nonna, che bocca grande che hai, pare un forno!" - "Ed è per mangiarti meglio!"
Il lupo non aveva ancora finito la frase che subito saltò fuori dal letto e con un sol boccone inghiottì la povera Cappuccetto Rosso. Appena la sua ingordigia fu soddisfatta, si stravaccò nel letto e s'addormentò, russando fragorosamente. Il caso volle che un cacciatore passasse da quelle parti, e pensò: 'Mmm.. come mai la vecchia signora russa così forte? Sarà meglio dare un'occhiata." Entrò nell'ingresso, e quando fu ai piedi del letto, vide che al suo posto c'era il lupo. "Così ti ho beccato, vecchio delinquente!" disse, "è da un pezzo che ti sto dando la caccia." Stava già per puntargli addosso il fucile, quando gli sovvenne l'idea che il lupo potesse aver divorato la nonna, e che questa forse era ancora viva, così, invece di sparare, prese un paio di forbici e cominciò a tagliare la pancia della bestia. Dopo qualche taglio, vide il copricapo rosso che faceva capolino, e dopo qualche altro colpo di forbici la bambina saltò fuori, piangendo. "Oh, che spavento! Era così buio lì dentro nella pancia del lupo!" E poi venne fuori anche la nonna, quasi priva di sensi ma viva. Poi Cappuccetto Rosso andò a raccogliere certe grosse pietre e riempirono la pancia del lupo con quelle, e così, quando la belva si svegliò e cercò di scappare via, le pietre erano così pesanti che in un attimo crollò a terra morto stecchito.
Fu una gran festa per tutti e tre; il cacciatore poté scuoiare il lupo e si portò via la pelliccia. La nonna mangiò la torta e bevve il vino che le aveva portato la nipotina, e Cappuccetto Rosso pensò: 'Fin che vivrò, non lascerò mai più la strada maestra per avventurarmi da sola nel bosco se mia mamma mi dice di non farlo.'
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Si racconta poi che Cappuccetto Rosso tornò un'altra volta dalla nonna a portarle dell'altro cibo appena sfornato, quando un altro lupo l'avvicinò, cercando di convincerla ad abbandonare il sentiero; ma Cappuccetto Rosso non ci cascò e andò dritta dalla nonna. Le raccontò di aver incontrato il lupo, e che questi le aveva augurato il buon giorno, ma che l'aveva fissata con aria cattiva: "se non fossimo stati nella pubblica via, probabilmente mi avrebbe divorata" disse. La nonna rispose: "vieni, chiudiamo bene a chiave, così non potrà entrare." Poco dopo, ecco che arriva il lupo. Bussa alla porta e grida: "Aprimi, nonna, sono io, Cappuccetto Rosso, sono venuta a portarti qualcosa di buono da mangiare." Ma esse restarono in silenzio, e non aprirono. Capo Grigio gironzolò furtivamente intorno alla casa, e alla fine s'arrampicò sul tetto, intenzionato ad aspettare che Cappuccetto Rosso uscisse per tornare a casa, per poi pedinarla e farsene un boccone nell'oscurità. Ma la nonna afferrò le sue intenzioni, e prese provvedimenti. Appena fuori della porta c'era un grosso mastello di pietra; "Cappuccetto Rosso, prendi un secchio," disse alla bambina, "giusto ieri ho cucinato delle salsicce. Vammi a prendere l'acqua che ho fatto bollire e versiamola nel mastello." Cappuccetto Rosso portò l'acqua e la versò tutta nel mastello fino riempirlo. L'odore delle salsicce s'insinuò nelle narici del lupo, il quale sniffò l'aria e poi diresse lo sguardo di sotto, sporgendosi troppo, finché perse l'equilibrio e scivolò giù. Piombò dritto dritto nel mastello pieno d'acqua ed affogò. Così, Cappuccetto Rosso ritornò felicemente a casa, sana e salva.
Per arrivarci bisogna:
salire le scale,
oltrepassare il corridoio
ed ecco qua la nostra camera.
La nostra camera e di forma rettangolare,
il muro è di colore celeste
con dei fiori fuxia.
E’ arredata con:
un letto per tre,
un comodino con una lucetta,
un tavolo con
due computer ed un libro,
una tv grande come una Lim,
una finestra con una grande terrazza.
una grande cesta con delle Barbie,
delle scatole di lego,
dei puzzle,
dei cappelli e dei trucchi.
Di fianco alla scrivania ci sono due grandi armadi:
uno per i vestiti ed uno come passaggio segreto
che porta in un giardino incantato con una piscina idromassaggio,
una piscina normale,
degli unicorni,
dei fiori,
degli alberi.
Il letto per tre,
quando ci infiliamo sotto le coperte,
dondola e se schiacci un bottone a forma di cuore
si sente una dolcissima musica che ci fa
ADDORMENTARE.


Il vigile urbano
Chi è più forte del vigile urbano?
Ferma i tram con una mano.
Con un dito, calmo e sereno,
tiene indietro un autotreno:

cento motori scalpitanti
li mette a cuccia alzando i guanti.

Sempre in croce in mezzo al baccano:
chi è più paziente del vigile urbano?
Il punto interrogativo
C'era una volta un punto
interrogativo, un grande curiosone
con un solo ricciolone,
che faceva domande
a tutte le persone,
e se la risposta
non era quella giusta
sventolava il suo ricciolo
come una frusta.
Agli esami fu messo
in fondo a un problema
così complicato
che nessuno trovò il risultato.
Il poveretto, che
di cuore non era cattivo,
diventò per il rimorso
un punto esclamativo.

Gli uomini di burro


Giovannino Perdigiorno, gran viaggiatore e famoso esploratore, capitò una volta nel paese degli uomini di burro. A stare al sole si squagliavano, dovevano vivere sempre al fresco, e abitavano in una città dove al posto delle case c'erano tanti frigonferi Giovannino passava per le strade e li vedeva affacciati ai finestrini dei loro frigoriferi, con una borsa di ghiaccio in testa. Sullo sportello di ogni frigorifero c'era un telefono per parlare con l'inquilino.
- Pronto.
- Pronto.
- Chi parla?
- Sono il re degli uomini di burro. Tutta panna di prima qualità. Latte di mucca svizzera. Ha guardato bene il mio frigorifero?
- Perbacco, è d'oro massiccio. Ma non esce mai di li?
- D'inverno, se fa abbastanza freddo, in un'automobile di ghiaccio.
- E se per caso il sole sbuca d'improvviso dalle nuvole mentre la Vostra Maestà fa la sua passeggiatina?
- Non può, non è permesso. Lo farei mettere in prigione dai miei soldati.
- Bum, - disse Giovannino. E se ne andò in un altro paese.
La passeggiata di un distratto


- Mamma, vado a fare una passeggiata.
- Va' pure, Giovanni, ma sta' attento quando attraversi la strada.
- Va bene, mamma. Ciao, mamma.
- Sei sempre tanto distratto.
- Si', mamma. Ciao, mamma.
Giovannino esce allegramente e per il primo tratto di strada fa bene attenzione. Ogni tanto si ferma e si tocca.
- Ci sono tutto? Si, - e ride da solo.
E così' contento di stare attento che si mette a saltellare come un passero, ma poi s'incanta a guardaté le vetrine, le macchine, le nuvole, e per forza cominciano i guai.
Un signore, molto gentilmente, lo rimprovera:
- Ma che distratto, sei. Vedi? Hai già perso una mano.
- Uh, è proprio vero. Ma che distratto, sono.
Si mette a cercare la mano e invece trova un barattolo vuoto. Sarà proprio vuoto? Vediamo. E cosa c'era dentro prima che fosse vuoto? Non sarà mica stato sempre vuoto fin dal primo giorno...
Giovanni si dimentica di cercare la mano, poi si dimentica anche del barattolo, perché ha visto un cane zoppo, ed ecco per raggiungere il cane zoppo prima che volti l'angolo perde tutto un bràcao. Ma non se ne accorge nemmeno, e continua a correre.
Una buona donna lo chiama: - Giovanni, Giovanni, il tuo braccio!
Macché, non sente.
Pazienza, - dice la buona donna. - Glielo porterò alla sua mamma.
E va a casa della mamma di Giovanni.
- Signora, ho qui il braccio del suo figliolo.Oh, quel distratto. Io non so piu' cosa fare e cosa dire.Eh, si sa, i bambini sono tutti cosi.
Dopo un po' arriva un'altra brava donna.
- Signora, ho trovato un piede. Non sarà mica del Giovanni?
- Ma si che è suo, lo riconosco dalla scarpa col buco. Oh, che figlio distratto mi è toccato. Non so piu' cosa fare e cosa dire.
- Eh, Si sa, i bambini sono tutti così.
Dopo un altro po' arriva una vecchietta, poi il garzone del fornaio, Poi un tranviere, e perfino una maestra in pensione, e tutti portano qualche pezzetto di Giovanni: una gamba, un orecchio, il naso.
Ma ci può essere un ragazzo piu' distratto del mio?
- Eh, signora, i bambini sono tutti Così
Finalmente arriva Giovanni, saltellando su una gamba Sola, senza piu' orecchie nè braccia, ma allegro come sempre, allegro come un passero, e la sua mamma scuote la testa, lo rimette a posto e gli dà un bacio.

- Manca niente, mamma? Sono stato bravo, mamma?
- Sì Giovanni, sei stato proprio bravo.

Per colpa di un accento

Per colpa di un accento
un tale di Santhià
credeva d'essere alla meta
ed era appena a metà.

Per analogo errore
un contadino a Rho
tentava invano di cogliere
le pere da un però.
Non parliamo del dolore
di un signore di Corfù
quando, senza più accento,
il suo cucu non cantò più.


L'acca in fuga, di Gianni Rodari

C'era una volta un'Acca.
Era una povera Acca da poco: valeva un'acca, e lo sapeva. Perciò non montava in superbia, restava al suo posto e sopportava con pazienza le beffe delle sue compagne. Esse le dicevano:
E così, saresti anche tu una lettera dell'alfabeto? Con quella faccia?
Lo sai o non lo sai che nessuno ti pronuncia?
Lo sapeva, lo sapeva. Ma sapeva anche che all'estero ci sono paesi, e lingue, in cui l'acca ci fa la sua figura.
" Voglio andare in Germania, - pensava l'Acca, quand'era- più triste del solito. - Mi hanno detto che lassù le Acca sono importantissime ".
Un giorno la fecero proprio arrabbiare. E lei, senza dire né uno né due, mise le sue poche robe in un fagotto e si mise in viaggio con l'autostop.
Apriti cielo! Quel che successe da un momento all'altro, a causa di quella fuga, non si può nemmeno descrivere.
Le chiese, rimaste senz'acca, crollarono come sotto i bombardamenti. I chioschi, diventati di colpo troppo leggeri, volarono per aria seminando giornali, birre, aranciate e granatine in ghiaccio un po' dappertutto.
In compenso, dal cielo caddero giù i cherubini: levargli l'acca, era stato come levargli le ali.
Le chiavi non aprivano più, e chi era rimast6 fuori casa dovette rassegnarsi a dormire all'aperto.
Le chitarre perdettero tutte le corde e suonavano meno delle casseruole.
Non vi dico il Chianti, senz'acca, che sapore disgustoso. Del resto era impossibile berlo, perché i bicchieri, diventati " biccieri", schiattavano in mille pezzi.
Mio zio stava piantando un chiodo nel muro, quando le Acca sparirono: il " ciodo " si squagliò sotto il martello peggio che se fosse stato di burro.
La mattina dopo, dalle Alpi al Mar Jonio, non un solo gallo riuscf a fare chicchirichi': facevano tutti ciccirici, e pareva che starnutissero. Si temette un'epidemia.
Cominciò una gran caccia all'uomo, anzi, scusate, all'Acca. I posti di frontiera furono avvertiti di raddoppiare la vigilanza. L'Acca fu scoperta nelle vicinanze del Brennero, mentre tentava di entrare clandestinamente in Austria, perché non aveva passaporto. Ma dovettero pregarla in ginocchio: Resti con noi, non ci faccia questo torto! Senza di lei, non riusciremmo a pronunciare bene nemmeno il nome di Dante Alighieri. Guardi, qui c'è una petizione degli abitanti di Chiavari, che le offrono una villa al mare. E questa è una lettera del capo-stazione di Chiusi-Chianciano, che senza di lei
diventerebbe il capo-stazione di Ciusi-Cianciano: sarebbe una degradazione
L’Acca era di buon cuore, ve l’ho già detto. È rimasta, con gran sollievo del verbo chiacchierare e del pronome chicchessia. Ma bisogna trattarla con rispetto, altrimenti ci pianterà in asso un'altra volta.
Per me che sono miope, sarebbe gravissimo: con gli "occiali" senz’acca non ci vedo da qui a lì.
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