PETER PAN
NEI GIARDINI DI KENSINGTON Il giro dei giardini
Voi dovete capire da voi stessi che è un po’ difficile seguir le avventure di
Peter Pan senz’avere una certa familiarità coi giardini di Kensington. Essi sono
in Londra, dove vive il re d’Inghilterra, ed io ho l’abitudine di condurci ogni
giorno il mio David, salvo il caso che sia decisamente infreddato. Nessun
bambino ha mai visto tutti, tutti i giardini, per la ragione che vien sempre così
presto l’ora di tornare a casa. E la ragione per cui vien così presto l’ora di tornare
a casa è questa, che, se voi siete così piccoli come il mio David, appena fa buio,
avete subito sonno. Se vostra madre non fosse più che sicura di questo, non vi
manderebbe a letto tanto di buon’ora.
I giardini sono circondati da un lato da una fila interminabile di omnibus,
sopra i quali ogni governante ha tanta autorità, che basta alzi il dito verso uno di
essi per ottenere che immediatamente si fermi. C’è per entrare nei giardini più
d’un ingresso, ma uno solo è quello per cui ciascun bambino è solito entrare, e
prima d’entrare ordinariamente egli si ferma a discorrere colla donna dei palloni,
che se ne sta a sedere proprio di fianco. Essa tiene stretti stretti i suoi palloni,
perché sa che, se per un momento allenta la mano, le volano via, e lo sforzo
continuo a cui si trova costretta, ha fatto diventar la sua faccia d’un così bel
colore di porpora che sembra una melagrana matura. Una volta ce n’era un’altra,
ma poi non venne più perché aveva lasciato andare tutti i suoi palloni in un
momento che, profondamente immersa in chi sa mai quali pensieri, teneva la
testa reclinata sul petto, ed era certo distratta. David si dolse molto per lei, ma
avrebbe desiderato di essersi trovato lì, quando aveva lasciato andare i palloni.
I giardini sono un luogo spaventosamente grande con migliaia e migliaia di
alberi; il primo punto dove uno arriva, entrando per la porta degli omnibus che è
la più frequentata, è la Camera dei Pari: ma voi sdegnate di fermarvi lì, perché la
Camera dei Pari è il ritrovo di personcine superiori, a cui è proibito di mischiarsi
col volgo dei mortali, ed è chiamata così appunto per questo. Il nome fu trovato
da David ed altri eroi, e voi avrete una precisa idea delle maniere e degli usi
vigenti in questa parte del giardino, quando vi sia stato detto che l’un Pari saluta
l’altro al suo arrivo dandogli compostamente la mano e domandandogli notizie
della sua salute! Mai un grido, mai un gioco movimentato: e parlar sempre in
punta di forchetta. Qualche volta però un Pari ribelle scavalca la cinta e fa la sua
entrata nel mondo dei vivi. Una di queste ribelli fu Miss Mabel Grey, della quale
vi dirò di più, quando arriveremo all’ingresso che ha il nome da lei. Essa è
l’unica Pari salita veramente in celebrità.
Adesso siamo nel Viale Grande, ed esso è tanto più grande degli altri viali,
quanto, per esempio, vostro padre è più grande di voi. Dimodoché potete
benissimo dire, come dice David, che il Viale Grande è il padre di tutti gli altri
viali. Nel Viale Grande si trovano le persone che mette conto di conoscere, e di
solito ce n’è con esse una adulta, per proibir loro di andar sopra l’erba bagnata e
per costringerle a restare ignominiosamente sedute sul canto di una panca, se
hanno fatto il mulo o le smorfie. Fare le smorfie è comportarsi come una
bambina, piagnucolando perché la governante non vi vuol prendere in collo, o
sorridendo scioccamente col dito nella bocca, e questa è una qualità proprio
odiosa; ma fare il mulo è tirar calci a ogni cosa, compresa la governante, e
compiere altre simili gesta, e perciò vi è una certa tal quale soddisfazione.
Se io volessi indicarvi tutti i punti notevoli a cui si passa dinanzi percorrendo
il Viale Grande, prima che avessi finito, sarebbe tempo di tornare addietro, e
perciò mi limito proprio ai principalissimi.
E, per cominciare, di fronte alla Camera dei Pari e vicino al cancello degli
omnibus sorge l’albero di Cecco Hewlett, quel memorabile albero, ai cui piedi
Cecco perdé la sua penna e cercandola trovò due soldi. Ci sono stati fatti molti
scavi d’allora in poi.
Più su c’è la casetta di legno in cui andò a nascondersi Marmaduke Perry. È
una storia terribile quella di Marmaduke Perry, che aveva fatto le smorfie per tre
giorni di fila ed era stato condannato a comparire nel Viale Grande calzato colle
calze di sua sorella. Egli corse a nascondersi nella casetta di legno, e rifiutò in
ogni modo di venir fuori finché non gli portarono tanti bonbons, quanti era giusto
di dargliene perché potesse superar la vergogna.
Ma eccoci in vista del gran Lago Rotondo, un bellissimo luogo, dove le
governanti vorrebbero sempre opporsi ad andare, perché, già, sono donne e non
han punto coraggio. In compenso però esse vanno volentieri dall’altra parte,
dove, proprio di faccia, sorgono il Monumento e il Palazzo delle Bambole. Nel
Palazzo delle Bambole abita tutto un popolo di queste care personcine, in mezzo
a tutte le comodità della vita con un’infinità di giocattoli bellissimi a propria
disposizione, e protetto da un immenso esercito poderosamente armato. Il
Monumento è una statua situata proprio davanti al palazzo, e deve certo
rappresentare qualcuno che in vita si divertiva moltissimo a vedere i giuochi che
si fanno nel Grande Viale, perché ha voluto anche dopo morto esser messo lì a
contemplarli, comodamente seduto in una larga poltrona.
Adesso ci troviamo davanti alla Gobba, che è la parte del viale dove si fanno
tutte le corse; ed anche se voi non avete intenzione di correre, voi correte lo
stesso appena arrivate alla Gobba, perché è un posto che invita così
lusinghevolmente a farlo, che non ci si può trattenere dal cedere ed accettare
l’invito. Non di rado a mezza strada si è stanchi e ci si sente battuti; ma allora c’è
lì accanto un’altra casetta di legno, chiamata la Casa dei Vinti, e si va lì a rifare le
forze. Lasciarsi poi venir giù per l’erbosa Gobba è un piacere che non ve n’ha
certo l’uguale, ma non si può farlo nei giorni di vento perché allora non si è
condotti ai giardini: lo fanno però in cambio le foglie cadute. Non c’è forse
nessuno che si diverta tanto a venir giù per la Gobba quanto una foglia caduta.
Di sulla Gobba noi possiamo vedere l’ingresso a cui ha dato il suo nome Miss
Mabel Grey, la Pari di cui ho promesso parlarvi. Essa era sempre accompagnata
da due governanti, o da una governante e sua madre, e per molto tempo si
mantenne una bambina modello che si voltava sempre da parte quando tossiva e
domandava: “Come sta Lei?” agli altri Pari, e il cui solo divertimento era quello
di gettare graziosamente in aria una palla e farsela poi riportare dalla
governante. Ma un bel giorno si stancò di tutto questo e volle un po’ fare la
pazza, e primamente, per mostrare che era diventata pazza davvero, si sciolse i
lacci delle scarpe e cacciò fuori quant’era lunga la lingua mostrandola a tutti e
quattro i punti cardinali; quindi gettò la sua cintura in una pozzanghera e ci
ballò sopra finché l’acqua fangosa non le fu schizzata fino sopra la faccia, dopo
di che scavalcò la difesa ed ebbe una serie d’incredibili avventure, e una delle
ultime, tra queste, fu che lanciò in aria tutte e due le scarpine. Alla fine arrivò
all’ingresso che ora ha nome di lei e corse fuori inoltrandosi per vie dove David
ed io non siamo mai stati, sebbene ne abbiamo sentito dai giardini il rumore, e
corri corri corri non si sarebbe più saputo nulla di lei, se sua madre non fosse
balzata dentro una vettura e non avesse cosìriacchiappata la fuggitiva. Tutto ciò
accadde, debbo dire, molto tempo fa e la Mabel Grey che David ora conosce è
molto diversa.
Arrivati così all’altra estremità del Grande Viale, abbiamo alla nostra sinistra
il Viale dei Bimbi, così pieno di carrozzelle che non v’è proprio gusto a
trattenervisi, perché non vi si può correre liberamente e si è sempre sgridati dalle
altrui governanti. Da questo viale un piccolo sentiero chiamato il Dito del
Gigante, perché ha appunto questa larghezza, conduce al vialino del Picnic,
dove si va a far merenda sotto i grandi castagni. Dall’altra banda del piccolo
sentiero si trova invece il Pozzo di San Govor, che era pieno d’acqua il giorno in
cui Malcolm l’Ardito vi cadde dentro. Era il cocco della mamma e in
considerazione che questa era vedova, egli arrivava a permetterle che gli
ponesse il braccio intorno al collo anche in pubblico; ma aveva una gran
propensione per le avventure, e gli piaceva di giocare con un carbonaio che,
quando faceva il carbone ne’ boschi aveva ammazzato una gran quantità d’orsi.
Il nome del carbonaio era Neri, e un giorno, mentre stavan giocando vicino al
pozzo, Malcolm vi cadde dentro, e vi sarebbe miseramente annegato, se Neri
non si fosse lanciato dentro anche lui e non lo avesse salvato; ma quando furono
tornati su tutti e due, attaccati alla grossa corda della secchia, si trovò che l’acqua
aveva ripulito benissimo il viso del presunto Neri, che così la mamma di
Malcolm potè riconoscere per il babbo del medesimo, pianto per morto da tanto
tempo. E la conseguenza immediata di questo si fu che Malcolm non permise
più oltre che la mamma gli cingesse il braccio attorno al collo davanti alla gente.
Tra il pozzo e il lago c’è il gran prato per giocare al cricket, ma assai spesso la
formazione e l’ordinamento delle schiere porta via tanto tempo che, per giocare,
ce ne resta assai poco. Ciascuno vuol battere primo, ed allora comincian le lotte,
e mentre voi lottate, gli altri generalmente decidono di giocare a qualcos’altro.
Nei giardini ci sono due specie di cricket: il cricket dei maschi, che è un vero
cricket col suo batti-palla, e il cricket delle ragazze che si fa colla racchetta e la
governante.
Le ragazze realmente non sanno giocare al cricket, ed a stare a guardarle
mentre fanno i loro vani sforzi c’è da far le più matte risate e da dar loro la baia
proprio di gusto. È vero però che una volta si dette uno sgraziatissimo caso, e fu
quando alcune di loro sfidarono la schiera di David e una impacciosa creatura
chiamata Angela Clare fece tanti colpi che... Ma, piuttosto che tediarvi collo
starvi a raccontare lo strano risultato di questa rincrescevole gara, mi sbrigherò
invece a condurvi in riva al gran Lago Rotondo che è la mèta preferita di tutti i
frequentatori dei giardini.
Esso è nel bel mezzo di questi e una volta arrivati li voi non desiderate di
andar più lontano. Non potete restar buoni tutto il tempo quando siete sulla
sponda del Lago Rotondo, per quanti sforzi facciate. Potete restar buoni tutto il
tempo nel Viale Grande, ma no in riva al Lago Rotondo, e la ragione ne è che voi
ve ne dimenticate, e quando ve ne ricordate, siete ormai così bagnati che poco
importa se vi bagnate un pochino di più. Ci sono molti che fanno navigare delle
barche sul Lago Rotondo, delle barche così grandi che qualche volta le portano
sopra delle carrette a mano.
Tra i marinai del Lago Rotondo ce ne sono di tutte le età: il che voi potete
spiegarvi benissimo pensando che tutto dipende dal quando si comincia a
possedere una barca. Il primo giorno è però senza paragone il più bello: in
ispecie la soddisfazione che si prova nel fare ammirare la nostra proprietà a chi
non possiede ancora nulla di simile, è qualche cosa di veramente impagabile. Ma
l’abitudine, si sa, è nemica mortale del diletto: e perciò la popolazione marinaia
delle sponde del Lago si rinnova molto rapidamente.
Tuttavia, siccome ci sono delle barche più belle e delle barche più brutte e dei
bambini più incostanti e di quelli meno incostanti, non c’è regola fissa: v’è chi
arriva a divertirsi con una barca persino una settimana! Questo accade
particolarmente a quei bimbi che hanno la fortuna di possedere una barca molto
bella: perché, voi capite benissimo, più la barca amata è bella e più l’amore
ragion vuole che duri.
Da ogni parte affluiscono al lago sentieri, come bambini. Alcuni fra essi sono
sentieri ordinari, che han la loro difesa da un lato e dall’altro e sono stati fatti da
uomini in maniche di camicia, ma altri invece sono capricciosi e vagabondi, in
un punto larghi e in un altro così stretti che vi possono passar fra le gambe.
Questi si chiamano sentieri che si son fatti da sé, e David ha sempre desiderato
di vederne uno mentre si stava facendo. Ma, come tutte le più maravigliose cose
che accadono nei giardini, anche questo ha luogo — noi riteniamo — di notte,
dopo che i cancelli son chiusi.
Uno di siffatti sentieri viene dal luogo dove si tosano le pecore. Quando
David lasciò i suoi riccioli dal parrucchiere, disse loro addio — mi fu riferito —
senza il minimo tremito nella voce, nonostante che sua madre avesse le lacrime
agli occhi; perciò egli disprezza la pecora che cerca sfuggire al suo tosatore e le
grida pieno di sdegno: “Vergognati, vigliaccona!” Ma, quando poi il tosatore
l’afferra stretta fra le sue gambe, allora egli mostra il pugno a lui, perché adopera
delle forbici tanto grandi. Un altro momento terribile è quando l’uomo ha
liberato dal loro manto di sudicia lana le spalle della pecora, e questa
improvvisamente prende l’aspetto di una dama quando appare al davanzale del
suo palco in teatro. Le pecore hanno un tale spavento della tosatura, che ne
diventano tutte bianche e insecchite, ed appena tornano libere, cominciano
subito a morsecchiar l’erba, proprio ansiosamente, come se temessero di non
dover mangiare più mai. David si maraviglia in vedere come si conoscan tutte
fra loro e facciano conversazione e si bacino, e poi bisticcino e se le diano e si
separino adirate ad ogni momento. Perché esse sono delle gran litighine, e così
diverse d’indole dalle pecore di campagna, che ogni anno vengono a dar degli
urtoni al mio cane di San Bernardo, Porthos. Porthos può fare scappare tutto un
pascolo di pecore di campagna solo annunziando il suo arrivo, ma queste pecore
di città, invece, gli vengono incontro, con tutt’altra intenzione che d’intrattenersi
gentilmente con lui, ed allora il ricordo dell’anno passato illumina come un
lampo la mente di Porthos. Egli non può per dignità, ritirarsi, ma si ferma e gira
intorno la testa, come per ammirare il paesaggio, e poi riprende a camminare
ostentando indifferenza e guardando verso di me con la coda dell’occhio.
Lì vicino comincia la Serpentina. È una magnifica riviera, dentro cui è
affondata tutta una foresta. Se vi curvate sul margine, ne potrete veder gli alberi
che crescono tutti all’incontrario. Di notte si dice che vi si vedono anche delle
stelle affondate. Se è vero, Peter Pan le deve vedere quando traversa la riviera
dentro il suo nido di tordo. Solo una piccola parte della Serpentina è dentro i
giardini, perché presto essa passa al disotto di un ponte per arrivare là dove è
l’isola, sulla quale nascono tutti gli uccelli che poi diventano bambini e bambine.
A nessun essere umano, eccetto Peter Pan (e anche questi è solo a metà un essere
umano) è permesso di approdare a quell’isola, ma voi potete scrivere ciò che
desiderate (maschio o femmina, capelli neri o capelli biondi) sopra un pezzo di
carta, e poi fate una barchetta con questo, ed essa a buio arriva all’isola di Peter
Pan.
Adesso finalmente siamo sulla via del ritorno. Però è una bella pretesa voler
girare tanti luoghi tutti in un giorno. Io avrei dovuto trascinar via David molto
prima, o fermarmi su ogni sedile come il vecchio signor Salford. Noi lo
chiamavamo così, perché egli ci parlava sempre di un bellissimo posto che si
chiamava Salford e in cui egli era nato. Era un vecchio signore con una curiosa
faccia di mela lazzerola, il quale andava errando tutto il giorno per i giardini da
sedile a sedile, sempre in cerca di qualcuno che conoscesse la città di Salford.
Ora, dopo un anno e più che avevamo fatta la sua conoscenza, ci capitò di far
quella di un altro vecchio signore, il quale aveva una volta passata una
domenica a Salford. Era un carattere timido e dolce, e portava scritto il suo
indirizzo nell’interno del cappello, e, in qualunque parte di Londra dovesse
recarsi, prima si portava sempre all’Abbazia di Westminster come a punto di
partenza. Noi lo conducemmo in trionfo dall’altro amico e io non potrò mai
dimenticare la esplosione di gioia con cui lo accolse il signor Salford. Da quel
giorno son diventati amiconi, ed io ho potuto ammirare come vadano
perfettamente d’accordo, l’uno sempre a parlare e l’altro sempre a sentire.
I due ultimi luoghi vicino a cui si passa prima di arrivare al nostro cancello
sono la Tomba del Cane e il Nido del Fringuello. Noi però dichiariamo di non
sapere che cosa sia la tomba del Cane: del cane nostro non è, perché Porthos è
sempre con noi. Il Nido è un luogo molto triste. Esso è tutto bianco e la maniera
in cui lo scoprimmo fu questa. Stavamo gettando un altro sguardo in mezzo ai
cespugli per veder di ritrovare il gomitolo di filo di lana che David ci aveva
qualche giorno innanzi perduto, ed invece del gomitolo trovammo un leggiadro
nido fatto di filo di lana e contenente quattro uova, con sopra dei segni al tutto
simili alla scrittura di David, cosicché noi pensammo che dovevano essere le
affettuose lettere scritte alla mamma dai piccini che erano dentro. Ogni giorno
che andavamo ai giardini, noi facevamo una visita al nido, badando bene che
nessun bimbo crudele ci vedesse, e vi lasciavamo cadere dei minuzzoli di pane,
cosicché in breve tempo l’uccello si abituò a considerarci come amici ed al nostro
approssimarsi non fuggiva più via, ma rimaneva accovacciato nel nido e ci
salutava battendo debolmente le ali e guardandoci amichevolmente con i suoi
intelligenti occhiettini. Ma un giorno, quando arrivammo, non trovammo più
che due uova nel nido, e la volta appresso niente. La cosa più triste era che la
povera fringuellina svolazzava lì intorno lamentandosi acutamente e guardando
noi con tale aria di rimprovero che si capiva come essa credesse che noi fossimo i
colpevoli; e sebbene David cercasse di spiegarle che s’ingannava, era tuttavia
tanto tempo dacché egli non aveva più parlato il linguaggio degli uccelli, che io
temo che essa non comprese nulla di ciò che egli le disse. Tanto David quanto io
quel giorno lasciammo i giardini colla nocca dell’indice davanti agli occhi.
II.
Peter Pan
Qualora voi domandiate alla vostra mamma se essa sapeva nulla intorno a
Peter Pan quand’era ancora una bimba, essa vi risponderà: “Ma certo che ne
sapevo, mio caro”; e qualora le domandiate se a quei tempi egli andava in giro
sopra una capra, vi risponderà: “Ma che domande! Certo che ci andava”. Così,
qualora domandiate alla nonna se sapeva nulla intorno a Peter Pan allorché era
una bimba, essa pure vi risponderà: “Sicuro che ne sapevo, piccino”; ma qualora
le domandiate se a quei tempi egli andava in giro sopra una capra, vi risponderà
che essa non ha mai sentito dire che egli possedesse una capra. Forse lo ha
dimenticato, precisamente come qualche volta dimentica il vostro nome e vi dà
quello di un altro. Però sarebbe assai strano che avesse dimenticato una cosa così
importante come la capra. E perciò è molto probabile che la capra non ci fosse ai
tempi in cui la vostra nonna era ancora una bimba. Questo mostra che, nel
raccontare la storia di Peter Pan, il cominciar dalla capra, come fanno tanti, è
assai sciocco, non meno che mettersi la giacchetta prima della sottoveste.
Anche Peter Pan non è tanto vecchio quanto si potrebbe credere. Il vero è che
egli ha sempre la stessa età, cosicché l’esser egli esistito anche ai tempi che la
vostra mamma e la vostra nonna eran bimbe, non vuol dir proprio nulla. Egli ha
solo una settimana di età e nonostante sia nato tanto e tanto tempo fa, non ha
mai avuto un compleanno né c’è la minima speranza che sia mai per averne uno.
La ragione ne è che egli scappò da essere una creatura umana quando aveva
sette giorni; scappò per la finestra e rivolò addietro nei giardini di Kensington.
Se voi pensate che egli sia il solo bambino che abbia voluto scappare, ciò
mostra solo quanto completamente abbiate dimenticato gli stessi vostri primi
giorni.
Quando David udì questo fatto, dapprincipio era del tutto sicuro che egli
non aveva cercato mai di scappare, ma io gli dissi di ripensarci su intensamente,
con le tempie strette fra i pugni, e quando egli ci ebbe così ripensato
intensamente e sempre più intensamente, finì col ricordarsi con la più grande
chiarezza un suo giovenil desiderio di ritornare in sulle cime degli alberi e con
tale ricordo ne vennero anche degli altri, come questo, che egli era a letto e
meditava di scappare appena la mamma si fosse addormentata, e che una volta
essa lo aveva ripreso a mezza via su per la cappa del camino. Tutti i bimbi
possono farsi tornare simili ricordi stringendosi forte le tempie fra i pugni
perché, essendo stati uccelli prima che creature umane, sono naturalmente dei
piccoli esseri furastici durante le prime settimane, e si sentono un gran prurito
alle spalle, al posto delle ali. Così mi dice David.
Io debbo spiegarvi che per le storie il nostro modo di procedere è questo:
prima io racconto la storia a lui, e dopo lui rifà il racconto a me, colla differenza
che non è più la stessa storia; e allora io torno a raccontarla ancora a lui colle sue
addizioni e varianti, e così si va innanzi finché nessuno può più dire se la storia è
mia oppure sua. In questa di Peter Pan, per esempio, la nuda narrazione e la
maggior parte delle riflessioni morali sono mie, sebbene non tutte, perché anche
David sa essere un severo moralista; ma i pezzi così interessanti circa gli usi e
costumi dei bambini nello stadio uccellesco sono quasi esclusivamente
reminiscenze di David, richiamate collo stringersi forte le tempie fra i pugni e
pensare intensamente.
Dunque, Peter Pan andò via per la finestra, che per avventura era aperta.
Stando sul davanzale egli potè vedere in gran lontananza degli alberi, che
appartenevano senza dubbio ai giardini di Kensington, e nel momento che egli li
vide, dimenticò completamente ch’egli era ormai un piccolo bimbo in camicia da
notte e volò via diritto sopra le case verso i giardini. È una cosa maravigliosa che
egli potesse volar senza ali, ma sentiva alle spalle un prurito tremendo e.... e....
forse che tutti quanti potremmo volare, se avessimo così profonda fiducia nella
nostra capacità di farlo, come l’aveva l’audace Peter Pan quella sera.
Atterrò tutto allegro sull’ampio tappeto verde tra il Lago Rotondo e la
Serpentina, e la prima cosa che fece fu di buttarsi sulla schiena e tirar de’ calci
all’aria. Egli s’era affatto scordato di esser mai stato una creatura umana e
pensava di essere un uccello, anche nell’aspetto, proprio come nei suoi
primissimi giorni, e quando cercò di chiappare una mosca non si rese già conto
che la ragione per cui l’aveva mancata era che aveva tentato di afferrarla con la
mano, cosa che senza dubbio un uccello non fa. Si avvide, comunque, che
doveva già esser passata l’ora della chiusura, perché c’era una gran quantità di
fate e di gnomi in giro, ma troppo occupati per accorgersi di lui: erano intenti a
prepararsi la cena e chi mungeva le mucche, chi tirava su l’acqua, chi faceva altra
cosa.
A proposito, una cosa che bisogna io vi dica è che gli gnomi sono i maschi
del popolo delle fate, il quale riceve il nome unicamente da queste solo perché
alle signore spetta la preferenza. Anche noi abbiamo due nomi del tutto diversi
per indicare i maschi e le femmine e cioè uomo e donna; solo che siamo meno
gentili degli gnomi, poiché, se vogliam poi indicare tutti i maschi e tutte le
femmine insieme, diciamo “gli uomini”.
Ora, la vista delle secchie fece venir sete a Peter Pan che volò per levarsela
verso il Lago Rotondo. Si posò sulla sponda e tuffò il becco nell’acqua; egli
credeva che fosse il becco, ma, certo, era solamente il naso, e perciò non venne su
che poc’acqua e non così rinfrescante come di solito; allora volò in cerca di una
pozza di acqua piovana, e trovatala, vi si calò giù con tanto impeto che ci cadde
dentro. Quando un vero uccello cade dentro una pozza, esso gonfia le penne e le
scrolla e le becca finché non sono asciugate, ma Peter non riuscì a ricordarsi che
cosa fosse da fare, e decise piuttosto stizzito di andare a dormire sul salice
piangente nel Viale dei Bimbi.
Dapprincipio trovò qualche difficoltà nello equilibrarsi sopra di un ramo, ma
poi si ricordò la maniera, e si addormentò. Si svegliò molto prima dell’alba,
rabbrividendo e dicendo a sé stesso: “Io non sono stato mai fuori con una notte
cosi fredda”; realmente, egli era stato fuori in notti anche più fredde, quand’era
un uccello, ma, senza dubbio, come ognun sa, quella che sembra una notte calda
a un uccello è una notte fredda per un bimbo in camicia da notte. Peter perciò si
sentiva stranamente indisposto, come se la sua testa fosse imbottita; udiva forti
rombi che lo facevan guardare acutamente in giro, nonostante che non fossero
che suoi propri starnuti. C’era qualche cosa che egli desiderava moltissimo, ma,
sebbene sapesse che lo desiderava, non poteva rendersi conto che cosa mai fosse.
Ciò che desiderava tanto era che sua madre gli soffiasse il naso, ma siccome non
riusciva a venire mai in chiaro della cosa, così decise di rivolgersi alle fate per
essere illuminato. Le fate hanno fama di esser molto sapienti.
Ce n’erano appunto due che se ne andavan passeggiando lungo il Viale dei
Bimbi, tenendosi abbracciate per la cintura, ed egli si spiccò giù dal ramo per
andarle a interrogare. Le fate hanno i loro motivi di malumore con gli uccelli, ma
generalmente danno una risposta cortese a una cortese dimanda, ed egli restò
molto male quando le vide scappar via a tutta corsa appena lo scorsero. Uno
gnomo se ne stava sdraiato sur un seggiolone da giardino leggendo un
francobollo che qualche creatura umana aveva lasciato cadere, ma come udì la
voce di Peter si rifugiò rattamente, tutto spaventato, dietro un tulipano.
A sua gran confusione, Peter scoprì che la sua vista metteva in fuga ciascuno
di quei piccoli esseri. Una schiera di operai che stava segando un fungo se la
dette a gambe così precipitosamente che lasciò lì per terra tutti i suoi strumenti.
Una ragazza che andava a munger del latte rivoltò la sua secchia e ci si nascose
sotto. Presto i giardini furono tutti sossopra. Stuoli di fate andavan fuggendo in
ogni senso, domandandosi fieramente tra loro chi era che aveva paura; tutte le
luci si spengevano, tutte le porte venivano barricate, e dalle fondamenta del
palazzo della regina Mab rimbombavano de’ rulli di tamburo, segno che la
guardia reale era chiamata alle armi. Un reggimento di lanceri si precipitò alla
carica giù per il Grande Viale. Erano armati di foglie d’agrifoglio con le quali nel
passare sgraffiano terribilmente il nemico. Peter udiva il piccolo popolo gridar
da ogni parte che c’era una creatura umana nei giardini dopo l’ora della
chiusura, ma non gli venne fatto di pensare neppure un momento che la creatura
umana fosse lui. Egli si sentiva la testa sempre più piena e imbottita, e sempre
più desiderava sapere che cosa dovesse fare al suo naso, ma invano affrontava le
fate con la importante domanda: le timide creature scappavano dinanzi a lui, ed
anche i lanceri, quand’egli si trovò loro vicino sul pendio della Gobba,
svoltarono lesti in un vialino di fianco, pretendendo di aver visto l’intruso fuggir
per di là.
Disperando di ottener risposta dalle fate, egli risolse di consultare gli uccelli,
ma nel tempo stesso si ricordò, come di una cosa stranissima, che tutti gli uccelli
appollaiati sul salice erano volati via al posarsi di lui, e sebbene questo allora
non lo avesse affatto colpito, adesso ne capì il significato. Ogni essere vivente
scansava il suo incontro! Povero piccolo Peter Pan! Egli si sedette giù e pianse, e
anche in quel momento non si accorse che, per un uccello, non sedeva sulla
giusta parte. Fu una fortuna che non se ne accorgesse, perché altrimenti avrebbe
perduto la fede nel suo potere di volare, e nel momento stesso che voi dubitate
di poter volare, cessate anche dall’essere in grado di farlo. La ragione per cui gli
uccelli possono volare, e noi no, è semplicemente questa, che essi hanno perfetta
fede, perché avere la fede è avere le ali.
Ora, salvo che volando, nessuno può raggiungere l’isola che è in mezzo alla
Serpentina, perché alle barche degli umani è proibito di approdarvi, e tutto in
giro ci son tanti pali che spuntan fuori dall’acqua, su ciascuno dei quali siede di
sentinella giorno e notte un uccello. Verso quest’isola spiccò adesso il volo Peter
Pan, per andare ad esporre il suo strano caso al vecchio Salomone Gracchia, e vi
atterrò con sollievo, molto contento di ritrovarsi finalmente a casa, come gli
uccelli chiamano l’isola. Tutti dormivano, comprese le sentinelle, ma eccetto
Salomone, che stava affatto sveglio sopra il suo ramo. Senza punto scomporsi,
egli prestò tranquillamente orecchio al racconto che Peter gli fece del suo caso, e
quindi altrettanto tranquillamente rivelò al consultante il motivo della generale
paura.
— Guarda alla tua camicia da notte — gli disse — se non vuoi credere a me;
— e Peter guardò con occhi sbarrati la sua camicia da notte e poi gli uccelli
dormienti. Nessuno di questi portava addosso nulla di simile.
— Quante zampe hai? — domandò Salomone alquanto crudelmente, e Peter
vide con sua grande costernazione che egli ne aveva due più del giusto. Il colpo
fu così forte che gli vuotò subito la testa.
— Gonfia le tue penne — seguitò ancora Salomone, e Peter si sforzò
disperatamente di arruffar le sue penne, ma non gli riuscì perché non ne aveva.
Allora si levò su tutto tremante e per la prima volta dacché s’era posato sul
davanzale della finestra, si ricordò di una bella signora che era stata veramente
pazza di lui.
— Io penso che farò bene di ritornar da mia madre — disse con timida voce.
— Buon viaggio — replicò Salomone Gracchia guardandolo di sotto in su.
Ma Peter esitava.
— Perché non parti dunque? — chiese il vecchio ironicamente.
— Io suppongo — disse Peter tossendo — io suppongo che potrò ancora
volare? —
Voi vedete che egli aveva persa la fede.
— Povero piccolo mezzo e mezzo — esclamò Salomone, che, in fondo, non
aveva il cuore duro. — Tu non sarai mai più capace di volare, neppure nei giorni
di vento. Devi rassegnarti a vivere nell’isola per sempre.
— E non potrò neanche andare fino ai giardini? — chiese Peter con tragico
accento.
— Come puoi traversare l’acqua? — gli obbiettò Salomone.
Tuttavia, molto gentilmente, il vecchio uccello promise a Peter di insegnargli
tutti quegli usi uccelleschi che con una forma così sgraziata fosse per poter
imparare.
— Allora io non sarò un vero e proprio essere umano?
— No.
— E neppure precisamente un uccello?
— Neppure.
— Che sarò dunque?
— Sarai un Forse-che-sì-forse-che-no — rispose Salomone, e certamente egli
era un gran saggio, perché la predizione si avverò per l’appunto.
Gli uccelli dell’isola non potevano mai abituarsi a lui. Le sue singolarità li
meravigliavano ugualmente ogni giorno, come se fossero cose sempre nuove,
sebbene fossero piuttosto gli uccelli che erano sempre nuovi. Ne venivan fuori
cotidianamente dal guscio e si divertivano un mondo a veder Peter Pan; dopo,
ben presto, volavano a diventare dei bimbi, e altri piccoli rompevano il guscio; e
così seguitava sempre. Le accorte mamme, quando i piccoli tardavano a mettere
il capino fuori del guscio, solevano spingerli a sbrigarsi sussurrando loro che
non si lasciassero sfuggir l’occasione di veder Peter che si lavava o mangiava o
beveva. Migliaia di uccellini si affollavano intorno a lui ogni giorno per vederlo
a far queste cose, precisamente come voi osservate gli uccellini, e mettevano
grida di gioia quando egli chiappava con le mani invece che, come usa, con la
bocca le croste gettategli. Il cibo glielo portavano dai giardini gli uccelli adulti su
ordine ricevuto da Salomone. Egli non voleva mangiare né vermi né insetti (ciò
che, a loro parere, era molto sciocco da parte sua), e perciò essi gli portavano del
pane nei loro becchi. Così, voi che gridate: “Ingordo, ingordaccio! all’uccello che
fugge via colla grossa crosta nel becco, ora sapete che non dovete farlo, perché
esso molto probabilmente la porta a Peter Pan.
Peter non indossava più la camicia da notte. Dovete sapere che gli uccelli
stavano sempre a pregarlo di darne loro un pezzetto per rivestirne i loro nidi, ed
egli, siccome aveva buon cuore, non sapeva dire di no; cosicché per consiglio di
Salomone aveva nascosto quel che gli era di essa rimasto. Ma, sebbene egli fosse
ora completamente ignudo, non dovete già credere che avesse freddo e fosse
infelice. Era invece abitualmente felicissimo e gaio, e la ragione era che Salomone
aveva tenuto la sua promessa e gli aveva insegnato molti costumi degli uccelli: il
contentarsi di poco, per esempio, e lo star sempre facendo qualche cosa, ed il
credere che, a qualunque cosa attendesse, si trattasse sempre di una cosa della
più alta importanza. Peter diventò anche molto bravo nell’aiutare gli uccelli a
fabbricare i loro nidi; presto li seppe fabbricare meglio dei colombi selvatici, ed
in seguito altrettanto bene quanto i merli, sebbene non riuscisse mai a soddisfare
i fringuelli; e costruiva dei piccoli abbeveratoi assai graziosi in vicinanza dei nidi
e con le dita raccoglieva vermi pei piccoli. Diventò, insomma, assai dotto nella
scienza uccellesca, e imparò anche, per esempio, a riconoscere il vento di levante
da quello di ponente al loro diverso sentore, e venne in grado di veder l’erba
crescere, e udire i vermi camminare sotto la corteccia dei tronchi. Ma la cosa più
bella che Salomone aveva fatto, era stata quella d’insegnargli ad avere un cuore
sempre lieto. Tutti gli uccelli hanno sempre il cuore lieto, salvo che voi prediate
loro i lor nidi, e perciò, siccome quella era l’unica specie di cuore che Salomone
conoscesse, non gli era stato difficile d’insegnare a Peter come fare per averla.
Il cuore di Peter era così lieto, che egli si sentiva obbligato a cantar tutto il
giorno, precisamente come gli uccelli cantano per gioia, ma, essendo in parte
creatura umana, egli aveva bisogno di uno strumento, e perciò si fece una
zampogna di canne. Usava la sera andare a sedersi sulla spiaggia dell’isola,
afferrando l’odore del vento e il mormorare dell’acque e raccogliendo manciate
di lume di luna, e metteva tutto ciò dentro la sua zampogna, e poi suonava così
dolcemente che gli uccelli ne restavano ingannati e dicevano tra loro: “È un
pesciolino che guizza nell’acqua o è Peter Pan che suona la sua zampogna?”
Qualche volta egli cantava la nascita degli uccelli, e allora le mamme si
guardavano intorno nei nidi per vedere se non avessero deposto un altr’uovo.
Chi frequenta i giardini conosce certamente il castagno vicino al ponte, che mette
i fiori prima di tutti gli altri castagni, ma forse non ha inteso dire perché
quell’albero ha questo privilegio. Ciò è perché Peter desidera molto l’estate e
suona che essa è venuta, e il castagno essendo così vicino lo ode e resta
ingannato.
Ma qualche volta, quando Peter sedeva così sulla spiaggia e suonava così
divinamente sopra la sua zampogna, gli venivano dei tristi pensieri, e allora la
musica diventava triste pur essa, e la ragione di tutta questa tristezza era che egli
non poteva arrivare sino ai giardini, sebbene potesse vederli attraverso l’arcata
del ponte. Egli sapeva che non avrebbe più potuto tornare ad essere una vera
creatura umana e poco gl’importava in realtà, ma, oh!, quanto, quanto bramava
di poter giocare come giocano i bimbi, e senza dubbio per giocare non c’è posto
più splendido dei giardini. Gli uccelli gli portavano notizie del come giocano i
bimbi e le bimbe, e grosse lacrime di desiderio rigavano la faccia attenta di Peter.
Forse voi vi maravigliate che egli non traversasse a nuoto il braccio della
riviera. La ragione era che egli non sapeva nuotare.
Desiderava d’imparare come si fa, ma nessuno era pratico, salvo le anatre, e
queste son tanto stupide. Avevano tutta la buona volontà possibile di
insegnarglielo, ma quanto sapevano dirgli era tutto qui: “Tu ti siedi sull’acqua in
questa maniera e poi dài dei colpi di piede all’acqua stessa così”. Peter si provò
varie volte, ma ogni volta, prima che potesse menare i piedi, affondava. Quello
che egli realmente aveva bisogno di sapere era come ci si siede sull’acqua senza
affondare, e le anatre dicevano che era affatto impossibile di spiegare una cosa
tanto facile quanto quella. Occasionalmente approdavano all’isola dei cigni, ed
egli dava loro volentieri tutto il suo cibo di quel giorno per poi saperne in
ricambio come ci si siede sull’acqua, ma appena egli non aveva più nulla da dar
loro, quelle cattive bestiacce lo ricompensavano a fischi e salpavano subito via.
Una volta egli credette realmente di avere scoperto un mezzo per
raggiungere i giardini. Uno strano oggetto bianco, simile a un foglio di giornale
fuggiasco, svolazzava su in alto sopra l’isola e a poco a poco venne cadendo giù
a terra, ondeggiando e sbandando come un uccello che ha avuto rotta una delle
sue ali. Peter ne fu così spaventato che corse a rimpiattarsi, ma gli uccelli gli
dissero che non era altro che un cervo volante, e gli spiegarono che cos’è un
cervo volante e che quello doveva avere strappato la sua funicella di mano a un
qualche ragazzo e così esser volato via. Dopo di che ebbero a burlare Peter,
perché si mostrava tanto innamorato del cervo volante; egli ne era infatti così
innamorato che dormì persino con una mano su esso, ma io penso che questo era
anzi commovente e grazioso, perché la sua ragione era a trovarsi nel fatto che il
cervo volante aveva appartenuto a un bimbo vero.
Per gli uccelli questa era una ragione molto meschina, ma i più vecchi fra essi
erano in quel tempo pieni di gratitudine per lui perché aveva assistito un buon
numero di piccini presi dalla rosolia, e perciò si offrirono di mostrargli come gli
uccelli fanno volare un aquilone. Cinque di essi presero l’estremità della
funicella nei loro becchi e staccarono il volo tenendola stretta; e con grande
stupore di Peter l’aquilone volò dietro loro e si levò anche assai più in alto di
loro.
— Un’altra volta, un’altra volta! — egli pregò, e gli uccelli gentilmente
servizievoli lo rifecero parecchie volte, e sempre invece di ringraziarli egli
esclamava con voce di preghiera: — Un’altra volta! — ciò che mostra come egli
non avesse ancora dimenticato del tutto le abitudini dei bimbi.
Alla fine, chiudendo un gran disegno nel valoroso suo petto, egli li supplicò
di farlo un’unica volta ancora, ma con lui aggrappato alla coda.
Questa volta non più cinque, ma un centinaio di uccelli strinsero la fune nel
becco, mentre Peter serrava tra le mani la coda coll’intenzione di lasciarla andare
appena fosse sopra i giardini. Ma per aria la coda si staccò e Peter sarebbe
affogato nella Serpentina, se non si fosse aggrappato a due cigni invano
reluttanti e non li avesse costretti a ritrasportarlo sino alla riva dell’isola. Dopo di
che gli uccelli dichiararono che non lo avrebbero più aiutato nella sua matta
intrapresa.
Ciò nondimeno, Peter alla fine riuscì a raggiungere i giardini coll’aiuto della
barchetta di Shelley, come ora vi racconterò.
III.
Il nido di tordo
Schelley era un giovane gentleman e così finito di crescere come non si
sarebbe mai potuto aspettare che fosse. Era un poeta: e i poeti son gente che non
è mai finita di crescere. Son persone che disprezzano il danaro salvo quanto ne
occorre loro per l’oggi, ed egli di denaro ne aveva tanto che non riusciva a finirlo,
per quanta buona volontà ci mettesse. Così, un giorno che passeggiava per i
giardini di Kensington, fece una barchetta con un biglietto di banca e la mandò a
navigare giù per la Serpentina.
La notte essa arrivò all’isola; e la sentinella la portò a Salomone Gracchia, che
dapprincipio pensò fosse la solita cosa, e cioè il bigliettino di qualche signora, la
quale gli dicesse che gli sarebbe stata obbligata se avesse voluto mandarle un
uccellino buono. Le signore lo pregano sempre di mandar loro il più buono che
ha, ed egli, se la lettera gli piace, ne manda uno della classe A, ma se lo
indispettisce ne manda invece di quelli che hanno proprio l’argento vivo nelle
vene. Qualche volta non ne manda addirittura nessuno e qualche altra volta ne
manda una nidiata: tutto dipende dal modo con cui lo si piglia.
Egli ama che ci si rimetta a lui, e se si fa particolare menzione di ciò che si
desidera, per esempio, d’aver “questa volta un maschietto”, è quasi sicuro che
egli manda invece una femmina. Soprattutto poi ricordate una cosa: o che voi
siate una signora o solamente un piccolo bimbo che desidera una sorella, datevi
sempre cura di scrivere l’indirizzo ben chiaro; voi non vi potete immaginare
quante volte Salomone ha mandato dei bimbi a chi non doveva.
La barchetta di Shelley, come fu da lui aperta, rese assai perplesso Salomone,
che chiamò a consiglio tutti i suoi assistenti. Questi dopo averci zampettato
sopra due volte, l’una in avanti e l’altra a ritroso, conclusero che doveva essere
un biglietto proveniente da qualche persona ingorda, la quale chiedeva
nientedimeno che cinque bimbi. Credettero così perché sul biglietto c’era
stampato un grosso cinque.
— Idiota! — gridò Salomone tutto arrabbiato all’indirizzo della persona
mittente, e regalò il biglietto a Peter: tutte le cose inutili che capitavano nell’isola
venivano usualmente regalate a lui perché ci giocasse.
Ma egli non giocò col suo prezioso biglietto di banca, perché riconobbe di
che cosa si trattava, essendo stato un grande osservatore durante quella
settimana in cui era stato un bambino come tutti gli altri. Con tanto danaro, egli
riflettè, avrebbe sicuramente potuto alla fine riuscire a raggiungere i giardini, e,
considerate tutte le maniere possibili, decise (saggiamente, a mio credere) di
attenersi alla migliore. Ma, per prima cosa, bisognava informasse gli uccelli del
valore della barchetta di Shelley: ora essi, sebbene fossero troppo onesti per
ritorgliela, rimasero tuttavia poco soddisfatti della cosa e gettarono tali neri
sguardi sopra Salomone, il quale era piuttosto vano della sua chiaroveggenza,
che questi s’andò a rincantucciare all’estremità dell’isola, rimanendo lì molto
depresso con la testa nascosta tra l’ali. Allora Peter, che gli era affezionato e
riconoscente, gli andò vicino e cercò di rincuorarlo.
Né questa fu la sola maniera con cui Peter cercò di riguadagnarsi la potente
benevolenza del vecchio capo. Voi dovete sapere che Salomone non aveva
intenzione di rimanere in ufficio per tutta la vita. Egli meditava di rinunziare un
bel giorno al governo e ritirarsi a godere in agiata pace la sua restante vecchiaia
sopra un certo cipresso della Camera dei Pari, che aveva colpito la sua
immaginazione, e così per varii anni era venuto quietamente riempiendo la sua
calza. Era una calza, appartenuta a qualche bagnante, che era stata gettata a riva
sull’isola, e nel tempo di cui io parlo essa conteneva centottanta pezzetti di pane,
quarantaquattro noci, sedici torsoli di mela, un puliscipenne ed un laccio da
scarpe. Quando la sua calza fosse piena, Salomone calcolava che sarebbe stato al
riparo dal bisogno e quindi in grado di attuar la sua idea. Ora Peter gli regalò
una sterlina, che staccò dal suo biglietto di banca mediante un bastoncello
appuntito.
Questa liberalità gli rese amico per sempre il vecchio Salomone, il quale,
dopo che si furono consultati insieme, convocò un’assemblea generale dei tordi.
Vedrete ben tosto perché solo i tordi furono invitati.
Il piano da esser sottoposto all’approvazione dell’assemblea era di Peter, ma
fu Salomone che lo espose, perché egli perdeva presto la pazienza se un altro
parlava e lui doveva star zitto. Cominciò col dire che egli aveva un’alta opinione
dei tordi per la singolare ingegnosità che addimostrano nel fabbricare i loro nidi,
e con questo dispose subito favorevolmente gli uditori, com’era il suo scopo nel
dirlo: perché voi dovete sapere che tutte le quistioni che nascono fra uccelli
vertono intorno alla migliore maniera di fabbricare i nidi. Gli altri uccelli, disse
Salomone, omettono di rivestire internamente i loro nidi con fango, e il resultato
ne è che questi non trattengono l’acqua. Qui egli gettò indietro la testa, come se
avesse arrecato un argomento che non ammetteva replica; ma, disgraziatamente,
all’adunanza era intervenuta, non invitata, una signora Fringuello, la quale,
sentendo questo, strillò: — Noi non fabbrichiamo i nostri nidi per tenerci dentro
dell’acqua, ma per custodirci le uova, — e allora i tordi persero tutto il loro buon
umore, e Salomone rimase così perplesso che tirò su parecchie beccate d’acqua.
— Consideri Lei — obbiettò alla fine — quanto il fango rende caldi i nidi.
— Consideri Lei — rimbeccò la signora Fringuello — che quando l’acqua è
entrata dentro i nidi e vi resta, i nostri piccini corron pericolo di morire affogati.
I tordi pregarono con gli sguardi Salomone di replicare con qualche
argomento di peso, ma Salomone era rimasto di nuovo perplesso.
— Becchi un altro sorso— gli suggerì impertinentemente la signora
Fringuello. Essa si chiamava Pepita e tutte le Pepite hanno la lingua pepata.
Salomone beccò un’altra sorsata, e ciò lo inspirò.
— Se — disse — un nido di fringuello è messo sulla Serpentina, si riempie e
si sfa, mentre un nido di tordo resta sodo e sicuro come il dorso d’un cigno. —
Come applaudirono i tordi! Adesso sapevano perché rivestivano
internamente i loro nidi di fango, e quando la signora Fringuello strillò: — Noi
non andiamo a mettere i nostri nidi sulla Serpentina, — essi fecero quel che
avrebbero dovuto fare sin da principio e cioè cacciarono via l’intrusa a beccate. Il
che può parervi poco gentile da parte loro trattandosi di una signora: ma dovete
ricordare che tra i tordi ci sono i maschi e le femmine, e David mi assicura che la
violenza venne da queste.
Dopo, tutto procedette con ordine. Ciò che essi erano stati chiamati ad udire,
continuò Salomone, era questo: il loro giovane amico lì presente, Peter Pan,
com’essi ben sapevano, desiderava moltissimo di poter traversare la riviera per
arrivar nei giardini, e ora s’era proposto, col loro aiuto, di costruirsi una barca.
A queste ultime parole i tordi cominciarono ad agitarsi, ciò che fece tremar
Peter per il suo piano.
Salomone si affrettò a spiegar loro che ciò che egli voleva non era una di
quelle incomode barche che sono usate dagli uomini; la barca progettata doveva
essere un semplice nido di tordo grande abbastanza per contenere Peter.
Ma, con grande angoscia di Peter, i tordi seguitavano ancora a dar segni dì
malumore. — Noi abbiamo molto da fare — brontolavano, — e questa vuol
essere una grossa fatica.
— È vero — rispose Salomone, — ma Peter non intende che voi lavoriate
gratis per lui. Dovete ricordarvi che presentemente egli si trova in buone
condizioni di fortuna, e vuol pagarvi una mercede quale non avete mai ricevuta.
Egli mi autorizza a dirvi che voi tutti e ciascuno riceverete da lui sessanta
centesimi al giorno. —
A tanta promessa tutti i tordi si misero a saltellar dalla gioia, e quel giorno
medesimo cominciò la famosa costruzione della Barca. Tutti i loro affari ordinari
restarono addietro. Era il tempo dell’anno in cui essi avrebbero dovuto
accoppiarsi, ma nessun nido fu costruito eccetto quel grande di Peter, e così
Salomone presto rimase a corto di piccoli tordi con cui far fronte alle continue
dimande che gliene arrivavano dal paese degli uomini. Quei bimbi bofficioni e
piuttosto ghiotti che hanno un così bell’aspetto dentro le carrozzelle, ma che
soffiano facilmente quando camminano, sono stati tutti dapprincipio tanti
giovani tordi. Le signore hanno una speciale predilezione per questi, che sono
quindi la razza più domandata. Che cosa credete che facesse Salomone?
mandava su pei tetti a far requisizione di passeri e ordinava loro di depor le
uova nei vecchi nidi dei tordi, e poi spediva i loro piccini alle signore, giurando
che erano tordi! Quell’anno restò dopo celebre nell’isola come l’anno dei Passeri;
e così, se mai voi incontrate nei giardini delle persone adulte che s’impettiscono
e gonfiano come per darsi a credere a sé stesse ed agli altri per più grandi di quel
che sono in realtà, pensate che probabilmente appartengono a quell’anno.
Interrogateli, per sincerarvene.
Peter era un padrone onesto e pagava regolarmente ogni sera i suoi operai.
Essi si schieravano in file sui rami e aspettavano pazientemente che egli avesse
tagliato via tanti pezzetti da sessanta centesimi l’uno dal suo biglietto di banca.
Finito ciò, erano chiamati a nome un per uno, e un per uno volavano giù e
ricevevano la loro mercede. Dev’essere stata una bellissima vista.
Alla fine, dopo mesi di lavoro, la barca fu terminata. Oh, la gioia di Peter
mentre la vedeva crescere sempre più, e sempre più prender la forma di un
enorme nido di tordo! Sin dal primo principio della sua costruzione egli aveva
preso l’abitudine di dormire a essa accanto, e spesso si svegliava per susurrarle
delle cose gentili. Quando poi fu internamente rivestita di fango e il fango si fu
seccato, allora invece ogni notte ci andò a dormir dentro. Dopo non ha mai
smesso quest’uso che conserva ancor oggi, ed ha una maniera graziosissima di
rannicchiarsi nel nido, che è grande giusto quanto basta perché egli vi stia
comodamente se si rannicchia a tondo come un gattino. Il nido è internamente
bruno, s’intende, ma di fuori è verde, essendo intrecciato d’erba e di vimini, e
quando l’una e gli altri diventan gialli e marciscono, le pareti vengono intessute
di nuovo con erba e vimini freschi. Ci sono anche qua e là alcune piume, perdute
dai tordi durante la fabbricazione.
Gli altri uccelli erano estremamente gelosi, e dissero che la barca non si
sarebbe sostenuta sull’acqua: ma, a loro confusione, vi si sostenne
magnificamente bene; allora dissero che l’acqua vi sarebbe penetrata dentro e
l’avrebbe fatta affondare: ma l’acqua non vi penetrò; finalmente trovarono che
Peter non aveva remi, e questo fece sì che i tordi si guardassero angosciata mente
l’un l’altro: ma Peter replicò che egli non aveva bisogno di remi, perché
possedeva una vela, e con aria di soddisfazione e d’orgoglio fece vedere una vela
da lui confezionata con la sua camicia da notte, e che sebbene avesse ancora una
certa rassomiglianza con una camicia da notte, ciò nondimeno era pure una
graziosa vela. E quella stessa notte, essendo piena la luna, e tutti dormendo gli
uccelli, egli entrò a bordo e salpò dall’estrema punta dell’isola. E nel primo
momento — egli non seppe spiegarsi il perché — i suoi occhi si levarono in alto,
mentre le sue mani si giungevano; dopo invece il suo sguardo si fissò
all’occidente.
Aveva promesso ai tordi di cominciare con viaggi corti, servendosi di loro
per guide, ma laggiù c’erano i giardini di Kensington che occhieggiavano così
lusinghieramente di sotto l’arco del ponte, ed egli non potè ritenersi. Il suo viso
era in fiamme, ma non lo volse mai addietro: c’era una esultanza nel suo piccolo
cuore, che ne aveva cacciato via ogni paura. Fu Peter l’ultimo eroe che salpò
verso occidente incontro all’ignoto?
Dapprincipio la barca girò su sé stessa e fu respinta addietro verso il suo
punto di partenza; in seguito a ciò egli diminuì la velatura, rimovendo una delle
maniche, ma fu subito trascinato via da una brezza sfavorevole con suo non lieve
pericolo. Allora lasciò cadere tutta la vela, ma il risultato fu che lo afferrò la
corrente spingendolo all’ingiù, lontano dal ponte e verso un punto della costa,
dove si levavano nere ombre, delle quali non conosceva, ma ben poteva
sospettare i pericoli. Vedendo questo, issò e spiegò di nuovo la sua camicia da
notte e riuscì così ad allontanarsi sempre più dalle ombre, finché un vento
favorevole lo colse, che lo portò verso nord-ovest, ma a tanto gran velocità, che
per poco non lo mandò a finire contro un pilone del ponte. Scansato il pilone,
passò sotto il ponte e giunse, con immensa sua gioia, in piena vista dei dilettosi
giardini. Ma, avendo provato a gettar l’ancora, che era una pietra attaccata
all’estremità di un pezzo della funicella del cervo volante, non trovò fondo, e fu
costretto a continuare cercando un ormeggio. Mentre saggiava la via, urtò contro
una catena di scogli subacquei, e l’urto fu così violento che lo lanciò sopra bordo
nell’acqua: mancò poco che affogasse, ma per fortuna riuscì ad arrampicarsi di
nuovo dentro la barca. Poi scoppiò una furiosa tempesta, accompagnata da un
tale muggito delle acque, quale egli non aveva udito mai per l’innanzi, ed egli fu
sballottato di qua e di là dai venti e dalle onde, e le sue mani erano così intirizzite
dal freddo che non poteva più chiuderle. Calmatosi un po’ il furore degli
elementi, un ultimo colpo di vento lo trasportò gentilmente dentro una piccola
baia, dove la sua barca potè alla fine galleggiare tranquilla.
Ciò nondimeno, non era ancor salvo, perché, quando volle sbarcare, trovò
sulla spiaggia una moltitudine di piccoli esseri che gliene contestava il diritto e
gli gridava iratamente di stare lontano, perché era passata da un pezzo l’ora
della chiusura. Nel tempo stesso che gli gridavano questo, quei piccoli esseri
agitavano con minaccioso contegno delle foglie di agrifoglio, e anzi una parte di
loro era occupata a trasportare innanzi una freccia che qualche bimbo aveva
dimenticata nel giardino e che essi si apprestavano a far servire da ariete.
Allora Peter, il quale sapeva che erano le fate, gridò loro a sua volta che egli
non era una creatura umana simile alle altre e non aveva intenzione di far loro
dispiacere, ma di esser loro amico; frattanto, avendo trovato un buon punto
d’approdo, non se la sentiva di tornare indietro, e le avvertì che, se avessero
cercato di fargli del male, ciò sarebbe stato a loro danno.
Così dicendo, saltò arditamente a terra. Il piccolo popolo si affollò intorno a
lui coll’intenzione di ammazzarlo, ma tutt’a un tratto si levò un alto grido tra la
parte femminile di esso, e ciò fu perché le fate avevano ora osservato che la vela
della sua barca era una piccola camicia da notte da bimbo. Immediatamente
furono prese da un grande affetto per lui e si dolsero infino che i loro grembi
fosser troppo piccini per poterlo capire, mutamento improvviso di cui non so
darvi ragione, se non dicendo che così fanno le donne. Gli gnomi allora riposero
nel fodero le loro armi, vedendo il contegno delle loro donne, nell’intelligenza
delle quali hanno una grande fiducia, e guidarono gentilmente Peter dalla loro
regina, che graziosamente gli conferì potestà e privilegio di aggirarsi a suo
piacimento nei giardini dopo l’ora della chiusura, sicché Peter d’allora in poi è
libero di andare dovunque vuole e le fate hanno ordine di provvedere ai suoi
comodi.
Tale fu il primo viaggio di Peter ai giardini, e dall’antichità del linguaggio
usato alla corte voi potete facilmente concludere che esso dovette aver luogo
molto tempo fa. Ma Peter resta sempre lo stesso e mai non cresce d’età, e perciò,
se noi potessimo appostarci una notte lì sotto l’arco del ponte per vederlo
passare (ma purtroppo non possiamo) è certo che lo vedremmo ancora venir
verso noi dentro il suo nido di tordo, con la sua piccola camicia da notte per vela,
veleggiando o remando. Quando va a vela, allora sta giù rannicchiato, ma per
remare sta diritto in piedi. Ora debbo dirvi come venne in possesso di un remo.
Molto prima dell’ora in cui si riaprono i cancelli, egli ritorna furtivamente
addietro alla sua isola, perché nessuno lo deve vedere (egli non è un essere del
tutto umano come gli altri frequentatori dei giardini), ma ciò nondimeno ha
dinanzi a sé parecchie ore per giocare, ed in esse egli giuoca, e la sua maniera di
giocare è la stessa precisa dei bimbi veri. Almeno egli crede così, ma una delle
cose che intorno a lui più commuovono è appunto il fatto che spesso egli giuoca
in maniera del tutto sbagliata.
Voi capite, egli non aveva nessuno che gli dicesse come giuocano realmente i
bimbi, perché le fate stanno tutte più o meno nascoste fino a buio, e perciò non
ne sanno nulla, e gli uccelli, sebbene pretendessero di potergli dare una gran
quantità d’informazioni, quando poi veniva il momento di dargliele, non è a
creder quanto poche gliene sapessero dare in realtà. Per esempio, lo informarono
giusto circa il giocare a rimpiattarsi, ma neppure le anatre dello stesso Lago
Rotondo seppero dirgli che cosa rendesse il lago così attraente per tutti i bimbi.
Ogni notte le anatre dimenticano tutti gli avvenimenti della giornata, eccetto il
numero di pezzetti di schiacciata gettati a ciascuna di loro. Sono creature
malinconiche e dicono che la schiacciata oggi non è più come era ai loro giovani
tempi.
Così Peter aveva da trovare molte cose da sé. Spesso giocava a navigare sul
Lago Rotondo, ma la sua nave non era che un bicchierino di latta, da lui trovato
sull’erba. Senza dubbio, egli non aveva mai visto un bicchiere, e perciò, trovato
ch’ebbe quell’uno, si domandò con maraviglia a che cosa mai voi poteste giocare
con un simile oggetto, e dopo lunga riflessione concluse che voi ci dovete giocare
pretendendo che sia una barca. Così egli lo metteva a galleggiare su l’acqua e lo
faceva navigare lungo la riva del lago tenendolo per il suo manico (il che qualche
volta faceva sì che la presunta nave imbarcasse dell’acqua), ed era molto
orgoglioso di avere scoperto che cosa fanno coi bicchieri i bambini.
Un’altra volta, avendo trovato un panierin da merenda, egli credette che
fosse fatto per sedervisi dentro, e volle provare, ma vi si trovò così allo stretto
che a fatica ne potè riuscir fuori. Trovò anche un pallone. Lo scorse che
ballonzolava sopra la Gobba come se stesse giocando da sé, e dopo una caccia
molto mossa arrivò finalmente a chiapparlo. Ma lo prese per una palla, e siccome
Jenny Scricciolo gli aveva detto che i bimbi fanno correre le palle a colpi di piede,
così volle fare anche lui; ma tirato che gli ebbe un calcio, non fu buono di più
ritrovarlo per quanto lo cercasse.
Forse l’oggetto più sorprendente che trovò fu una carrozzella. Stava essa
sotto una gran pianta di limone, vicino all’ingresso del palazzo d’inverno della
regina delle fate (che sorge in mezzo al cerchio formato dai sette grandi castagni),
e Peter le si avvicinò con prudenza, perché gli uccelli non gli avevano mai fatto
menzione di simili oggetti. Per paura che fosse un essere vivente, le rivolse la
parola con gentilezza; e dopo, non avendo ricevuto risposta, si arrischiò ad
avvicinarsi di più e a toccarla timidamente. Le dette una piccola spinta e la
carrozzella si trasse rapidamente indietro, ciò che lo indusse a pensare che, se
anche era muta, tuttavia viva era certo; Ma siccome aveva indietreggiato dinanzi
a lui, così gli passò la paura. Stese quindi la mano per tirarla a sé; ma questa
volta essa corse in avanti, ed egli ne ebbe un tale spavento, che scavalcò d’un
salto la ringhiera e fuggì via a tutte gambe alla sua barca. Però voi non dovete
già credere che egli sia un codardo: infatti la notte dopo ritornò con una crosta in
una mano e un bastone nell’altra, ma la carrozzella se n’era andata ed in seguito
egli non ne ha mai incontrata alcun’altra.
Ma io vi ho promesso di dirvi qualcosa intorno al suo remo. Vi dirò dunque
che è una vanga da bimbi che egli trovò vicino al pozzo di San Govor, e credette
che fosse un remo.
Forse voi sentite compassione di Peter, perché prende di questi abbagli? Se è
così, io penso che ciò è sciocco da parte vostra. Voglio dire, insomma, che sentir
compassione di lui qualche volta e per qualche cosa va bene, ma sentirne
compassione sempre e per tutto sarebbe una cosa fuori di luogo. Egli è convinto
di godersi le più belle ore possibili nei giardini e l’esser convinto di goderle è su
per giù lo stesso che goderle realmente. Giuoca senza mai smettere, mentre voi
spesso sciupate il tempo a fare i muli o le smorfie. Egli non può fare nessuna di
queste due cose, perché non ne ha mai inteso parlare, ma credete che debba esser
compatito per questo?
E com’è sempre allegro! È tanto più allegro di voi quanto voi, per esempio,
siete più allegri del vostro babbo. Certe volte non può assolutamente star fermo
un momento, per pura allegria. Avete mai visto voi un levriere a saltare le difese
e le siepi dei giardini? Così è come salta Peter allora.
E poi, non dimenticate la sua zampogna e i dolci suoni ch’egli ne trae. Dei
signori che tornavano a casa di notte hanno scritto qualche volta ai giornali
d’aver udito un usignolo nei giardini, ma in realtà era la zampogna di Peter che
avevano udito. Senza dubbio, egli non ha una mamma — o almeno a che gli
serve o gli ha servito d’averla? Voi potete essere angustiati per lui a causa di
questo, ma non dovete poi angustiarvene troppo, perché la prima cosa che ora io
intendo di raccontarvi, è appunto come Peter tornasse a veder la sua mamma.
Furono le fate che gliene fornirono il mezzo.
IV.
Chiusura
Tremendamente difficile è di scoprir alcunché intorno alle fate, anzi quasi
quasi la sola cosa che si possa dare per certa è che ci sono fate dovunque ci sono
bambini. Tanti e tanti anni fa questi non potevano entrar nei giardini, ed a quel
tempo non c’era sul posto neppure una fata; dopo, i bambini furono ammessi e
le fate accorsero in folla quella medesima sera. Esse non sanno tenersi dal
seguire dappertutto i bambini, ma voi le vedete di rado, in parte perché durante
il giorno esse vivono di là dalle difese, dove è proibito di andare, ma in parte
anche perché sono delle personcine assai furbe.
Quando eravate uccellini, conoscevate le fate benissimo e durante l’età delle
fasce tutti ricordate ancora molte cose di loro; sicché è un vero peccato che a
quell’età non sappiate già scrivere: perché poi gradualmente viene l’oblio, tanto
che io ho inteso dei bimbi dichiarare che essi non avevano mai visto una fata. E
molto probabilmente, mentre dicevano questo, se erano nei giardini di
Kensington, ne avevano qualcuna davanti! La ragione per cui non se ne
accorgevano, era che la fata fingeva di essere qualche cos’altro, e loro si
lasciavano prendere a quest’inganno. È una delle loro astuzie più comuni.
Generalmente anzi pretendono di essere fiori, perché la corte risiede presso la
Vasca delle Fate e là ci sono molti fiori, e molti ce ne sono pure lungo tutto il
viale dei Bimbi, che è l’altro luogo più frequentato da esse, e allora, per la grande
quantità, un fiore è la cosa che meno attrae l’attenzione. Esse vestono
esattamente come fiori, e cambiano secondo le stagioni, mettendosi, per esempio,
in bianco quando ci sono i gigli, in azzurro quando ci sono le lingue di leone, e
così via. Amano molto tutti i fiori, ma la loro speciale predilezione è per i
tulipani, e il vestirsi da tulipani è per loro il vestire più pomposo, cosicché la
stagione dei tulipani è generalmente il tempo più adatto a sorprenderle.
Quando credono che voi non le vediate, allora saltellano vivamente qua e là,
ma se il vostro sguardo si dirige verso di loro, ed esse temono di non aver tempo
bastante a nascondersi, allora è il momento che rimangono perfettamente
immobili e fanno finta d’esser dei fiori. E dopo che voi siete passati senza
accorgervi che erano fate, corron subito a casa e raccontano alle loro mamme
l’avventura che hanno avuta. La vasca delle Fate, per esempio, è tutta
incorniciata di edera, con fiori che occhieggiano di tra il verde cupo qua e là.
Molti di questi fiori sono realmente fiori, ma alcuni sono invece delle fate. Non è
facile, certo, assicurarsene, ma un buon mezzo è quello di camminare simulando
indifferenza e guardando dall’altra parte e poi voltarsi all’improvviso. Un altro
buon mezzo, che qualche volta io e David adoperiamo, è di guardare fissamente
il fiore sospetto. Dopo un po’di tempo la fata non può fare a meno di batter le
palpebre ed allora voi siete ormai certi che è proprio una fata.
Molto frequentato da esse è anche, come si è detto, il viale dei Bimbi. Una
volta ventiquattro di loro ci corsero una straordinaria avventura. Erano un
collegio uscito a passeggio con la sorvegliante, e tutte portavano gonnelle di
giacinto. Passeggiavano e chiacchieravano gaiamente tra loro, quando ad un
tratto la sorvegliante portò il dito alla bocca, ed esse subito ammutolirono tutte e
rimasero immobili sopra un’aiuola vuota, facendo finta di essere giacinti.
Sfortunatamente le persone che la sorvegliante aveva udito avvicinarsi erano
due giardinieri, che per l’appunto venivano a piantar nuovi fiori proprio in
quell’aiuola. Spingevano una carretta a mano con dentro i fiori, e restarono non
poco sorpresi di trovar l’aiuola occupata. “Che peccato di toglier via quei
giacinti!” disse l’uno. “Ordine del Duca,” replicò l’altro, e tutti e due, vuotata la
carretta dei fiori portati, presero su l’una dopo l’altra le malcapitate educande e
ve le disposero dentro in due file. Naturalmente né la sorvegliante né le ragazze
osarono di svelare che esse erano fate, e così furono trasportate via molto
lontano di lì in una prigione di coccio, dalla quale scapparono senza scarpe la
notte. La cosa destò molto rumore, e molti lamenti da parte dei genitori delle
ragazze, e il collegio fu rovinato per sempre.
Quanto alle loro case, è inutile cercar di vederle, perché esse sono proprio il
contrario delle nostre. Voi potete vedere le vostre case di giorno, ma non le
potete più vedere nel buio. Ebbene, voi potete invece vedere le loro case nel buio,
ma non le potete vedere di giorno, perché esse hanno il colore della notte ed io
non so di nessuno che sia capace di veder la notte di giorno. Ciò tuttavia non
significa che siano esse nere, perché anche la notte ha i suoi colori precisamente
come il giorno, e più brillanti che questo. L’azzurro, il rosso, il verde delle case
delle fate sono simili ai nostri con un lume di dietro. Il palazzo reale è costruito
interamente di vetri multicolori, ed è la più graziosa residenza che si possa
immaginare, se non che la regina qualche volta si lamenta perché la gente del
popolo viene ogni poco a gettar delle occhiatine nell’interno per vedere che cosa
essa sta facendo. Perché le fate, dovete sapere, sono persone assai curiose, e
premono forte il naso contro il vetro per distinguere meglio, nel che sta la
ragione del fatto che i loro nasi sono quasi sempre schiacciati.
Una delle grandi differenze fra noi e le fate è che esse non fanno mai nulla di
utile. Hanno sempre l’aria di gente affaccendata, che non ha un minuto di tempo
da buttar via, ma se voi domandaste loro che cosa stanno facendo, non vi
saprebbero dare risposta.
Sono spaventosamente ignoranti e non sanno e non fanno che gettar polvere
negli occhi. Così, per esempio, posseggono delle bellissime scuole, ma non vi
s’insegna nulla: la più piccola, essendo la persona più importante, è sempre
eletta maestra, e quando essa ha fatto l’appello, escono tutte a passeggio e non
tornano più alla scuola sino alla mattina di poi, per rifare lo stesso. Una cosa
molto notevole è appunto che nelle famiglie delle fate il capo di casa è sempre la
persona più giovane: e i bambini si ricordano questo, e ciò spiega perché trovino
ingiusto che tra gli uomini comandino i grandi.
Voi avete probabilmente osservato che la vostra piccola sorellina mostra una
speciale inclinazione a voler fare una gran quantità di cose che la vostra mamma
e la governante desiderano invece che essa non faccia: per esempio, di stare in
piedi quando è tempo di star seduta, e star seduta quando è tempo di stare in
piedi, oppure di stare sveglia quando dovrebbe dormire o rotolarsi sul
pavimento quando ha indosso il suo vestitino migliore, e così via; e forse
attribuite tutto questo a cattiveria. Ma non è: ciò significa semplicemente che
essa fa quel che ha visto fare alle fate; essa comincia col seguire gli usi di queste,
e ci vogliono circa tre anni perché si avvezzi alle abitudini umane. I suoi eccessi
di collera che son tremendi a frenare e che usualmente vengon chiamati
“dentizione”, non sono già questo: sono il segno della sua naturale
esasperazione, perché voi non la comprendete nonostante che essa parli un
linguaggio intelligibile. Essa parla fatesco. La ragione per cui mamme e
governanti capiscono prima degli altri che “eh, eh” significa “bello, bello”,
mentre “ieeeh” esprime il più alto grado dello scontento, è che, avendo avuto a
che fare con tante piccine, hanno finito con l’imparare qualche parola del
linguaggio delle fate. Voi vedete che è un linguaggio nient’affatto facile, perché
le parole si rassomigliano molto, pur avendo significati diversissimi.
Ultimamente David ha concentrato la sua memoria stringendosi forte le
tempie fra i due pugni, e così si è risovvenuto di un certo numero di frasi della
lingua fatesca, ch’è io vi ridirò una qualche volta, se non me le scordo. Egli le ha
udite in quei giorni che era ancora un tordo, e sebbene io gli abbia espresso il
dubbio non forse invece sien frasi della lingua degli uccelli quelle tornategli a
mente, egli asserisce di no, perché queste frasi si riferiscono a giuochi e
avventure, mentre gli uccelli per solito non parlano d’altro che di niditettura.
Egli si ricorda distintamente che gli uccelli usano andar da luogo a luogo
fermandosi davanti a ogni nido, come le signore davanti alle vetrine dei negozi,
e dicendo: “Che brutto colore che avete scelto, miei cari!”, e “Come sarebbe se ci
metteste una soffice imbottitura?” e “Ma reggerà?”, e “Che fattura orribile,
poveri voi!” e così via.
Le fate sono infaticabili ballerine, e questa è la ragione per cui i bimbi amano
tanto o di ballare sulle ginocchia dei grandi o di fare il girotondo. Esse tengono i
loro grandi balli all’aria aperta, dentro quello che è chiamato un circolo delle fate.
Per parecchi giorni appresso voi potete continuare a vedere questo circolo
sull’erba. Esso non c’è quando il ballo comincia, ma lo fanno poi loro, seguitando
a ballare sempre a tondo. Qualche volta voi troverete dei funghi dentro la
superficie del cerchio, e quelli sono poltroncine delle fate che i servi hanno
dimenticato di riportar via. Le poltroncine ed i cerchi sono i soli segni che le
piccole creature lasciano dietro di sé, e certo non lascerebbero neppur quelli, se
non fossero così appassionate pel ballo, che seguitano a ballare proprio sino al
momento della riapertura dei cancelli. David e io una volta abbiamo trovato uno
di questi cerchi ancora caldo.
Ma c’è anche il mezzo di sapere del ballo, prima che esso abbia luogo. Voi
conoscete i pali che portano scritto a che ora si chiudono i cancelli ogni giorno.
Ebbene, quelle furbe di fate qualche volta cambiano abilmente l’indicazione
dell’ora, per modo, ad esempio, che il palo dice che i giardini si chiudono oggi
alle sei e mezzo invece che alle sette. Questo permette loro di cominciare una
mezz’ora più presto.
Se in una tale notte noi potessimo restare nascosti dentro i giardini, come
fece la celebre Maimie Mannering, vi vedremmo delle cose deliziose: centinaia di
graziose fate affrettantisi al ballo, le maritate portando i loro anelli matrimoniali
attorno alla vita per cintura; i signori, tutti in uniforme, che reggono gli strascichi
delle dame, ed i servi che corrono innanzi, reggendo in mano delle ciliegie
d’inverno, le quali sono le lanterne delle fate; il guardaroba, dove esse
depongono le loro scarpine d’argento, ricevendo in cambio un biglietto col
numero relativo; i fiori che accorrono in folla dal Viale dei Bimbi per goder lo
spettacolo, e che sono sempre i benvenuti perché possono prestare uno spillo; la
tavola della cena, con la regina Mab a capotavola, e dietro la sua poltrona il Gran
Maggiordomo che tiene in mano un dente di leone sul quale soffia quando Sua
Maestà desidera di conoscere l’ora.
La tovaglia varia secondo le stagioni, ed in maggio è fatta di fiori di castagno.
La maniera in cui la servitù delle fate la fabbrica è questa: gli uomini, parecchie
dozzine, si arrampicano sugli alberi e scuotono i rami, e i fiori cadon giù fitti
come fiocchi di neve. Allora le donne li scopano colle loro sottane riunendoli
insieme in figura regolare e pareggiando la superficie dello strato finché questo
non ha assunto proprio l’aspetto di una tovaglia. Per piatti adoperano dei petali
di rosa e per bicchieri e per tazze i calici del medesimo fiore, che fornisce loro
anche i cucchiai e le forchette colle spine del suo stelo (sicuro, anche i cucchiai,
perché ogni spina, divisa in due, è da una parte forchetta e cucchiaio dall’altra).
Come vedete, la rosa è un fiore molto utile per le fate: e per questo anche loro
l’hanno proclamata la regina dei fiori. Quando le rose non ci sono, le spine sopra
la pianta ci son sempre, e di piatti e di calici si fa provvista presso altri fiori,
particolarmente presso le viole del pensiero. Si può dire che queste, le quali
sbocciano, come sapete, quasi appena finito l’inverno, e le rose, le quali, come
pure sapete, seguitano ad esserci sino ad autunno inoltrato, bastino da sole a
provvedere le fate di stoviglie durante tutta la buona stagione; nell’inverno esse
si accontentano di adoperare per piatti delle foglie di mirto e per calici dei semi
scavati. Quando è l’ora della cena, si siedono in giro sopra i loro soffici funghi, e
dapprincipio serbano un buon contegno e tossiscono sempre fuori di tavola, ma
dopo un po’ non si tengono più così perbenino, e ficcano le dita dentro il miele o
la conserva od il burro (che è fatto col latte di certe piante), o rovescian le tazze
con dentro il caffè e latte od il tè, o, peggio ancora, si trascinano sopra la tovaglia
dando la caccia colla lingua allo zucchero sparso. Quando la regina le vede far
questo, fa segno ai servi di sparecchiare e riporre, e dopo tutte si mettono in via
verso il luogo della danza, la regina alla testa e dietro a lei il Maggiordomo che
porta in braccio due piccoli vasi, uno dei quali contiene del sugo di viole a
ciocche e l’altro dell’unguento di rose. Il siroppo di viole a ciocche è
appropriatissimo per somministrar nuove forze alle stanche danzatrici, mentre
l’unguento di rose è un rimedio eccellente contro le ammaccature. Esse si
producono spesso delle ammaccature, perché, a loro richiesta, Peter suona
sempre più presto, finché la danza a tondo diventa vertiginosa, e allora voi
capite com’è facile finir per le terre. Anche senza bisogno che io ve lo dicessi, voi
vi sareste immaginati che Peter Pan è l’orchestra delle fate. Egli siede nel mezzo
del cerchio, e oramai esse non si sognerebbero neppure di tenere un ballo
veramente scic senza il suo concorso. Non c’è famiglia di buona società i cui
biglietti d’invito non portino indicato: “P.P.,,. Il piccolo popolo delle fate è anzi
un popolo riconoscente, ed al ballo che fu dato per festeggiare la maggiore età
della principessa ereditaria (le fate diventano maggiorenni in occasione del loro
secondo natalizio, e i loro natalizi ricorrono ogni mese) accordarono a Peter Pan
il voto del suo cuore.
La maniera in cui ciò venne fatto fu la seguente. La regina gli ordinò
d’inginocchiarsi, e, quando egli ebbe ubbidito, gli annunziò solennemente che,
in premio dei suoi alti meriti come musicista, essa aveva decretato di accordargli
il compimento del suo voto più caro. Tutti i presenti si strinsero intorno a Peter
per udire quale fosse il voto del suo cuore, ma Peter restò a lungo silenzioso,
perché neanche lui lo sapeva. Alla fine disse:
— Se io scelgo di tornar dalla mamma, potete accordarmelo, questo? —
Questa domanda riuscì loro sgradita, perché, se egli fosse ritornato dalla
mamma, esse avrebbero perduto la sua musica, e perciò la regina arricciò
sprezzantemente il nasino e rispose:
— Ohibò! Domanda dunque qualche cosa di più grande!
— Perché? È piccolo questo desiderio?
— Piccolo così — rispose la regina facendo combaciare le palme delle sue
mani.
— Che dimensioni ha un desiderio molto grosso? — domandò egli allora.
Essa lo misurò spalancando ambedue le braccia e ciò faceva, nientedimeno,
la larghezza della mano del vostro babbo. Allora Peter rifletté un pochino e
disse:
— Ebbene, allora, io credo che posso domandare il compimento di due voti
piccini, invece che di un solo grosso, non è vero? —
A questo le fate nulla potevano opporre, sebbene la furberia di lui le
indisponesse un pochino, ed egli dichiarò dunque che il suo primo desiderio era
di andare a rivedere la mamma, ma col diritto di ritornare ai giardini, per il caso
di una possibile delusione. Il suo secondo desiderio preferiva di tenerlo in
riserva.
Esse cercarono di dissuaderlo, ma tutto fu invano.
— Io ti posso accordare il potere di volare alla casa di lei — disse la regina, —
ma non posso far sì che la porta sia aperta.
— La finestra almeno dalla quale io volai via sarà aperta — replicò Peter con
la più ferma fiducia. — La mamma non la chiude mai nella speranza che io
ritorni.
— Come lo sai? — domandarono le fate sorprese, e, in verità, Peter non potè
spiegare come lo sapesse.
— Lo so — rispose.
Siccome egli persisteva nel suo desiderio, esse dovettero adattarsi. La
maniera in cui gli dettero il potere di volare fu questa: tutte l’una dopo l’altra gli
fecero il solletico sulle spalle, e allora egli cominciò a sentire un prurito terribile
in quella parte, e, sentendo il prurito, si sollevò sempre più alto e volò via fuori
dei giardini e sopra i tetti delle case.
Il piacere che provava era così delizioso che, invece di volar dirittamente
verso casa, egli s’indugiò a vagabondare sopra San Paolo e il Palazzo di Cristallo
ed il Parco del Reggente e il Tamigi, e quando alfine raggiunse la nota finestra,
era cosa già quasi decisa nella sua mente che il suo secondo desiderio sarebbe
stato di diventare un uccello.
La finestra era veramente spalancata, come Peter aveva saputo sin da prima,
ed egli entrò nella stanza e là era sua madre che giaceva in letto e dormiva. Peter
si posò leggermente sulla barra di legno ai piedi del letto e lì stette a guardarla.
Essa giaceva con la testa sulla mano, e la fossa del cuscino era simile a un nido
imbottito coi suoi folti capelli neri. Com’erano graziose le gale della sua camicia
da notte! Egli era proprio contento di possedere una mammina così bella.
Ma essa aveva un’aria triste ed egli capiva il perché. Una delle braccia della
dormiente si mosse come se volesse circondar qualche cosa, ed egli capiva che
cosa desiderasse di cingere.
— Oh mamma! — disse a sé stesso. — Se tu sapessi chi sta seduto qui sulla
sbarra ai piedi del tuo letto! —
Molto delicatamente carezzò con la mano il piccolo rialzo formato dai piedi
di lei, e potè vedere dalla sua faccia che ciò le faceva piacere. Capì che non aveva
da dir altro che “Mamma” altrettanto dolcemente, se voleva che essa si
svegliasse.
Sempre le mamme si svegliano subito, appena voi chiamate il loro nome. E
allora essa avrebbe gettato un tale grido di gioia e lo avrebbe serrato così forte al
suo petto! Come sarebbe stato gradito per lui, ma, oh!, come sarebbe anche stato
squisitamente delizioso per lei! Quello che mi colpisce, infatti, è la fiducia nel
proprio valore che aveva Peter. Tornando da sua madre, egli non dubitava
punto di farle il maggior regalo e procurarle la gioia più grande che si posson
fare e procurare a una donna. Niente può esser più bello, egli pensava, che il
possedere un piccolo bimbo proprio. Come ne sono orgogliose! Ed a ragione,
anche.
Ma perché Peter si tratteneva così a lungo sulla sbarra; perché non diceva
dunque alla mamma ch’egli era tornato?
Io debbo dire la verità: egli rimaneva lì fermo combattuto da due sentimenti.
Ora guardava lungamente la mamma, e ora guardava lungamente alla finestra.
Certo, sarebbe stato piacevole di ridiventare il caro piccino della sua mamma,
ma, dall’altro canto, che belle ore eran quelle passate nei giardini! Poteva dirsi
sicuro che non gli avrebbe dato noia il dover portar di nuovo delle vesti? Balzò
giù dal letto ed aprì certi tiretti, per dare un’occhiata alla sua antica roba. Tutto
era ancora lì, ma egli non potè venir a capo di ricordarsi l’uso di ciascun oggetto.
Le scarpine, per esempio, si portavano alle mani od ai piedi? Era sul punto di
provare a infilarsene una a una mano, quando corse una grossa avventura. Forse
il tiretto aveva scricchiolato: improvvisamente la mamma si svegliò, perché egli
la udì mormorare “Peter”, come se questa fosse la più cara e più bella parola di
tutte. Egli rimase immobile seduto sul pavimento e trattenne il respiro,
meravigliandosi come essa potesse sapere che egli era tornato addietro. Se essa
avesse chiamato di nuovo “Peter”, egli era deciso a rispondere “Mamma” e
correr da lei. Ma essa non parlò più, mise soltanto qualche piccolo gemito, e
quando egli fece novamente capolino di sopra la sbarra del letto, era di nuovo
addormentata, benché delle lagrime rigassero la sua faccia.
Questo afflisse molto Peter, e che cosa credete che egli facesse? Seduto sulla
sbarra ai piedi del letto egli suonò una dolcissima ninnananna alla mamma
sopra la zampogna. La compose da sé sulla maniera con cui la mamma aveva
detto “Peter”, e non ismise finché non vide tornata essa in calma.
Trovava così bella la sua composizione che a fatica si seppe trattenere dallo
svegliare la dormiente per sentirle dire: — Oh, Peter, come suoni divinamente!
— Ma si trattenne, e, poiché essa oramai sembrava consolata, i suoi sguardi si
volsero di nuovo verso la finestra. Voi non dovete già credere che egli pensasse
di rivolare via e non tornare più addietro. Aveva assolutamente deciso di
ridiventare il caro piccino della sua mamma, ma esitava a cominciare proprio
quella notte stessa. Era il secondo desiderio che lo teneva incerto. Non pensava
più a chiedere di esser trasformato in uccello, ma il rinunziare senz’altro alla
facoltà di formulare un secondo voto gli sembrava da sciupone e, d’altra parte,
formularlo non poteva se non tornando dalle fate. Inoltre, se avesse aspettato
molto ad esprimerlo, ciò poteva esser male. Domandò a sé stesso se non fosse
ingratitudine il non tornare a prender commiato da Salomone. — Avrei molta
voglia di fare una traversata sulla mia barca una sola volta ancora — disse
pensieroso rivolto alla mamma addormentata: egli ragionava con lei proprio
come se essa potesse sentirlo. — Sarebbe così bello di raccontare agli uccelli di
questa avventura — disse ancora con voce carezzevole. — Prometto di tornare
— assicurò solennemente e, in realtà, pensava anche di farlo.
La fine fu, voi capite, che rivolò via. Due volte tornò indietro preso dal
desiderio di baciare la mamma, ma temette che la deliziosa sensazione potesse
svegliarla, cosicché, alla fine, le suonò un affettuoso bacio sopra la sua
zampogna, e quindi rivolò verso i giardini senza più voltarsi addietro.
Molte notti e anche settimane e anche mesi passarono prima che egli
esprimesse alle fate il suo secondo desiderio; e ciò per non poche ragioni. Una fu
che aveva tanti addii da fare, dovendo salutare non solo i suoi particolari amici,
ma anche tutti i suoi luoghi preferiti. Dopo, aveva da compiere la sua ultima
traversata, e poi l’ultima davvero, e poi l’ultima di tutte, e così via dicendo.
Inoltre, vennero date in suo onore un’infinità di feste d’addio; ed infine un’altra
ottima ragione fu questa che, dopo tutto, non c’era furia, perché la mamma non
si sarebbe stancata mai d’aspettarlo. Veramente, quest’ultima ragione non
garbava troppo al vecchio Salomone, perché era un incoraggiamento a
procrastinare. Salomone aveva alcune eccellenti sentenze per ispronare gli
uccelli a compiere senza indugio ciò che dovevano fare, come, per esempio:
“Non rimettete a domani quel che potete far oggi”; “oggi possiamo e domani chi
lo sa?”; “l’occasione non si presenta due volte”; e ora Peter dava allegramente il
cattivo esempio col suo spensierato temporeggiare, e non c’è nulla di più
pericoloso del cattivo esempio. Gli uccelli lo facevano notare gli uni agli altri, e a
poco a poco prendevano l’abitudine dell’ozio.
Tuttavia, nonostante che si mostrasse così pigro a ritornare dalla mamma,
Peter era decisissimo a tornarci. La miglior prova di ciò era la sua prudenza di
fronte alle fate. Queste avrebbero veduto assai volentieri che egli restasse, per
l’egoistico motivo di non perdere in lui un così buon musicista, e a tale scopo
cercavano sempre di spingerlo a fare qualche osservazione sul genere di questa:
“Vorrei che l’erba fosse meno umida”, oppure ballavano fuori di tempo nella
speranza che egli le riprendesse dicendo: “Desidererei che andaste più a tempo”.
Allora esse avrebbero detto che egli aveva ormai espresso il suo secondo
desiderio. Ma Peter frustrava le loro insidie, e benché qualche volta gli accadesse
di cominciare: “Vorrei...”, pure, fortunatamente, si fermava sempre in tempo.
Cosicché, quando alla fine disse loro risolutamente: “Adesso desidero di
ritornare dalla mamma, e per sempre”, esse dovettero solleticargli le spalle e
lasciarlo andare.
Egli venne in tutta fretta a questa decisione una notte, perché aveva sognato
che sua madre stava piangendo e sapeva quale ne fosse il motivo ed era convinto
che una carezza del suo diletto Peter le avrebbe subito ricondotto sulle labbra il
sorriso. Oh!, egli non nutriva il minimo dubbio a tale riguardo, e questa volta gli
tardava tanto di essere a nido fra le braccia di lei, che volò dirittamente alla
finestra la quale doveva restar sempre aperta per lui.
Ma la finestra era chiusa, e v’erano ad essa delle sbarre di ferro, e, gettando
dentro lo sguardo, egli scorse la mamma che pacificamente dormiva col braccio
avvolto intorno a un altro piccino.
Peter chiamò: “Mamma! Mamma!,,; ma essa non lo udì; e invano egli scosse
con le sue piccole mani le sbarre di ferro. Dové far ritorno, singhiozzando, ai
giardini, e mai più non ha poi riveduto la sua cara mammina.
Che bravo bambino si era proposto di esser per lei! Ah, Peter, Peter! Tutti,
quando abbiamo commesso qualche grosso sbaglio, come diversamente
vorremmo agire alla seconda occasione! Ma dice bene Salomone: non si presenta
una seconda occasione, almeno per la maggior parte di noi. Quando
raggiungiamo la finestra, vi troviamo scritto sopra: Chiusura. E le sbarre di ferro
sono lì per la vita.
V.
La Casina
Tutti hanno inteso parlare della Casina nei giardini di Kensington, l’unica
casa in tutto il mondo costruita dalle fate per esseri umani. Ma nessuno l’ha vista,
eccetto proprio due o tre, e questi non solo l’hanno veduta, ma ci hanno anche
dormito, perché senza dormirci non è possibile vederla. La ragione di ciò è che
essa non esiste quando voi vi addormite, ma esiste quando vi svegliate e ne
uscite fuori.
C’è sì un modo in cui tutti possono vederla, ma ciò che allora uno vede non è
proprio la casina, è solo la luce delle finestre. Questa luce si può vedere passata
l’ora della chiusura. David, per esempio, la vide distintissimamente a una
grande distanza in mezzo agli alberi una sera che tornavamo dal teatro delle
marionette: io, per dir la verità, non la vidi, ma David afferma che quella sera io
avevo troppo sonno per poter vedere qualsifosse cosa. Del resto centinaia di
bimbi l’hanno veduta, chi questa sera chi quella, ora in questo luogo ora in
quello, perché le fate la costruiscono ogni notte, sempre in una parte diversa dei
giardini. Ma la prima persona per cui la Casina venne costruita fu la celebre
Maimie Mannering.
Maimie era una bimba piuttosto straordinaria, e ciò precisamente di notte.
Aveva quattro anni e durante il giorno era una bimba come tutte le altre. Le
faceva molto piacere quando suo fratello Tony, un magnifico giovanotto di sei
anni, mostrava di accorgersi della sua esistenza; e lo ammirava nella maniera
dovuta, sforzandosi, per quanto vanamente, d’imitarlo, e si sentiva lusingata
piuttosto che annoiata quand’egli la trascinava in giro con sé. Così pure, quando
doveva batter la palla, accadeva molto spesso che essa si fermasse, nonostante
che la palla fosse per aria, per mostrarvi che aveva in piede delle scarpine nuove.
Era proprio una bimba come tutte le altre durante il giorno.
Ma appena cadevano le ombre della notte, Tony, il rodomonte, dimenticava
il suo diurno disprezzo per Maimie e la guardava paurosamente con gli occhi
sbarrati, e ciò non è maraviglia perché coll’oscurità gli occhi di lei prendevano
un’espressione che io non vi saprei descrivere altro che chiamandola estatica.
Era uno sguardo sereno che contrastava non poco con le occhiate inquiete di
Tony.
Questi allora le offriva spontaneamente in regalo i suoi giocattoli favoriti
(che regolarmente le ritoglieva la mattina di poi) ed essa li accettava con un
sorriso assai sconcertante. La ragione per cui Tony diventava così gentile e
Maimie così misteriosa era, a dirla in breve, che essi sapevano di dover di lì a
poco andare a letto. Questo era il momento in cui Maimie diventava terribile.
Tony la scongiurava ogni sera che non lo facesse quella notte, e la mamma e la
governante nera la minacciavano di punirla, ma Maimie, per tutta risposta, si
limitava a sorridere di quel suo sconcertante sorriso. E quand’erano rimasti soli
col loro lumino da notte, tutt’a un tratto essa si rizzava sul letto ed esclamava
con voce di pianto: “Oh Tony! Oh Tony! Che è questo, Tony?” Tony allora la
supplicava: “Non è nulla, Maimie; non lo fare, non lo fare, Maimie!” e si tirava il
lenzuolo fin sopra la testa. “S’avvicina”, essa piagnucolava. “Oh Tony! Oh, sta
attento, Tony! Essa tocca il tuo letto colle sue corna! Buca la coperta! Oh Tony!”,
e non ismetteva finché anche Tony non balzava su, gettando grida di terrore.
Quando poi la governante accorreva, di solito trovava Maimie che
tranquillamente dormiva — non per finta, veh!, ma davvero — e che pareva la
più buona e innocente angioletta di questo mondo, il che, a mio credere, rendeva
la cosa anche più irritante.
Ma, quand’erano nei giardini, naturalmente era giorno, e allora Tony faceva
un gran discorrer di sé. Dai suoi discorsi voi potevate subito congetturare che
egli doveva essere un ragazzo molto coraggioso, e nessuno andava così
orgoglioso di lui come la sua sorellina Maimie. Essa avrebbe voluto portare un
cartellino attaccato sul petto, dove tutti potessero leggere che essa era sua sorella.
E in nessuna occasione lo ammirava di più che quando egli le dichiarava, come
spesso faceva con eroica fermezza, che un qualche giorno pensava di rimanere
nei giardini dopo la chiusura dei cancelli.
— Oh Tony! — essa esclamava allora col più grande rispetto; — ma le fate si
adireranno!
— Se tu credi che me ne dia pensiero! — replicava Tony col più profondo
disprezzo.
— Forse — essa continuava ammirata — Peter Pan ti farà fare un viaggio
sulla sua barca!
— Vorrei vedere di no — rispondeva Tony. Nessuna maraviglia che essa
andasse orgogliosa di lui.
Ma essi non avrebbero dovuto parlare così forte, perché una volta le loro
parole furono sorprese da una fata, che stava raccogliendo delle foglie di felce
nana, con cui esse fabbricano le loro cortine da estate, e da quel giorno Tony fu
preso di mira. Le fate scioglievano i fili delle barriere prima che egli ci si sedesse
sopra, cosicché, appena provava a sedercisi, si ritrovava invece a sedere per terra;
lo facevan cadere pigliandolo per i lacci delle scarpe e corrompevan le anatre,
perché gli affondassero la sua nave. Quasi tutti i brutti accidenti che vi occorrono
nei giardini sono dovuti al fatto che le fate vi hanno preso a malvolere, e perciò
bisogna che voi stiate molto attenti a quello che dite sul loro conto.
Maimie era una di quelle bimbe che amano di fissare il giorno in cui fare una
cosa, ma Tony invece no, e quand’essa gli domandava in che giorno intendeva di
rimanere nascosto nei giardini dopo l’ora della chiusura, egli si limitava a
rispondere: “Un giorno”, rimanendo sempre incerto circa la data da fissare,
salvo che essa non gli domandasse: “Sarà per oggi?,,, perché allora egli poteva
sempre dare per certo che non sarebbe stato quel giorno. Così essa capì che egli
aspettava una vera buona occasione.
Questo ci porta a un dopo pranzo che i giardini erano bianchi di neve e che
c’era del ghiaccio sul Lago Rotondo: non era grosso abbastanza per poterci
pattinare, ma almeno ci si poteva divertire a romperlo gettandovi delle pietre, e
una gran quantità di bimbi e di bimbe si stava appunto divertendo così.
Quando Tony e Maimie arrivarono, avrebbero voluto anche loro andar
diritti al lago, ma la loro governante disse che prima dovevano fare una
passeggiata, e dicendo questo gettò uno sguardo su al palo per vedere a che ora
si chiudevano i giardini quel giorno. Lesse le cinque e mezzo. Povera governante!
Essa era una grande sciocca che rideva continuamente guardando i bambini che
passavano (forse le pareva strano che ci fossero tanti bambini bianchi nel
mondo), ma non doveva ridere molto più a lungo quel giorno.
Bene, essi andarono in su lungo il Viale dei Bimbi e poi tornarono indietro, e
quando ripassarono dinanzi al palo dell’ora, la governante rimase sorpresa di
vedere che presentemente vi erano invece segnate le cinque come ora di
chiusura. Ma essa non conosceva le astuzie delle fate, e perciò non capì (come
invece Maimie e Tony capirono subito) che l’ora era stata cambiata da esse,
perché c’era un ballo quella notte. Ella disse che ormai non c’era più tempo che
di arrivare sino alla Gobba e tornare indietro, ma, mentre i due bimbi trottavano
oltre con lei, non indovinò punto quali sentimenti e quali idee si agitassero
dentro i loro piccoli petti e dietro le loro fronti pensose. Voi capite che
l’occasione di vedere un ballo delle fate era venuta. Mai, Tony lo sentiva
benissimo, mai egli non avrebbe potuto contare sopra un’occasione migliore.
Egli doveva sentirlo perché Maimie lo sentiva così bene per lui. I suoi occhi
bramosi domandavano chiaramente: “È per oggi?” ed egli sospirò e quindi
accennò di sì col capo. Maimie insinuò la sua mano dentro quella di Tony, e la
sua scottava, ma quella di Tony era ghiaccia. Allora essa fece una cosa molto
gentile: si tolse la sua sciarpa e la dette a lui. “Per il caso che tu debba sentir
freddo”, gli bisbigliò. La sua faccia era rossa infocata, ma quella di Tony era
scura.
Com’essi si voltarono indietro, dopo esser giunti in cima alla Gobba, egli le
susurrò:
— Ho paura che la governante mi veda, e allora non posso farlo. —
Maimie lo ammirò più che mai per non aver paura di nulla eccetto che della
governante, quando c’erano tanti pericoli sconosciuti da temere, e gli disse forte:
— Tony, facciamo a chi arriva prima al cancello; — aggiungendo sottovoce:
— Così ti puoi nascondere. —
E corsero via.
Tony poteva sempre distanziare facilmente Maimie, ma questa non lo aveva
ancora mai visto andar così di volo come adesso, ed era sicura che si affrettava
tanto per aver più tempo a nascondersi. “Bravo, bravo!” gli gridavano i suoi
occhi espressivi, quando ad un tratto essa ricevette un gran colpo: invece di
nascondersi, il suo eroe era corso fuori del cancello! A questa amara vista
Maimie si arrestò pallida e confusa, e per la grandezza dello sdegno non potè
neppur singhiozzare; in un impeto di protesta contro tutti i pulcini corse al
pozzo di San Govor e si nascose essa stessa in luogo di Tony.
Quando la governante raggiunse il cancello e scorse Tony in lontananza
lungo la strada di casa, credette che l’altro prezioso suo carico fosse pure laggiù,
e passò oltre. Il crepuscolo scendeva lentamente sopra i giardini e centinaia di
persone vennero passando il cancello, incluso l’ultimo, che ha sempre da correre,
ma Maimie non lo vide. Essa aveva serrato fortemente gli occhi per non lasciarne
uscire alcune cocenti lacrime, che però riuscivano a farsi strada lo stesso.
Quando li riaperse, qualche cosa di molto freddo le correva su per le gambe e pel
corpo e le s’insinuava nel cuore. Era il silenzio dei giardini. Poi essa udì clang,
poi ancora da un’altra parte clang, ed ancora clang, clang in lontananza. Era la
chiusura dei cancelli.
Era appena cessato di vibrare l’ultimo clang, quando Maimie udì
distintamente una voce che diceva: “Ecco fatto!,,. Aveva un suono di legno e
sembrava venire dall’alto, ed alzando la testa essa arrivò in tempo a vedere un
olmo che stendeva le braccia, come per isgranchirsi, e sbadigliava.
Stava per dire: “Io non avevo mai saputo che Lei potesse parlare!” quando
una voce metallica che sembrava venire dalla secchia del pozzo osservò all’olmo:
“È un po’ fresco lassù, non è vero?,, e l’olmo rispose: “Mica tanto, ma Lei si
gelerà a restar sempre ferma a quel modo!”; e così dicendo allargò e ripiegò
energicamente le braccia facendo toccar ciascuna mano contro l’opposta spalla.
Maimie fu non poco meravigliata di vedere che anche tutti gli altri alberi intorno
facevano simili gesti, e furtivamente s’allontanò in direzione del viale dei Bimbi,
dove s’insinuò, facendo un reverente inchino, sotto un agrifoglio di Minorca che
alzò le sue spalle, ma non sembrò curarsi né accorgersi minimamente di lei.
Essa non sentiva affatto freddo. Aveva indosso una cappottina assai pesante
colla fodera e col bavero e i risvolti grandi di pelliccia, ed in testa il cappuccio
pure foderato di pelliccia, che non le lasciava scoperta se non la faccina ed i
riccioli della fronte. Le gambe erano infilate dentro delle grosse calze di lana, e
sotto la lunga cappottina, che scendeva giù sino quasi all’altezza degli stivalini,
c’erano poi tante altre vesti perché stesse ben calda, che, nel complesso, e in
ispecie a distanza, non le si poteva negare una certa somiglianza con una grossa
palla.
C’era una gran quantità di gente a passeggio su pel viale dei Bimbi, e Maimie
arrivò in tempo per vedere una magnolia e un lillà persiano scavalcare d’un
salto il riparo e mettersi in via di buon passo. Veramente avanzavano a balzi, ma
ciò era perché usavano trampoli. Un sambuco saltellava attraverso il viale e si
fermò a chiacchierare con alcuni giovani cotogni, e tutti si reggevano su trampoli.
I trampoli erano quei bastoni a cui vengono legati tutti gli arbusti e tutte le
piante giovani. Erano oggetti ben famigliari a Maimie, ma essa non aveva mai
saputo perché proprio ci fossero, fino a quella notte.
Dette un’occhiata su per il viale e vide la prima fata. Era una fata monella che
correva lungo il viale divertendosi a chiudere gli alberi. La maniera in cui lo
faceva era questa: premeva una molla nei tronchi e questi si chiudevano come
ombrelli, inondando di neve le piccole piante che si trovavano sotto. “Oh! cattiva,
cattiva creatura!” gridò Maimie sdegnata, perché sapeva bene che cos’è avere un
ombrello gocciolante intorno alle orecchie.
Per fortuna, la fata maligna non era a portata di voce, ma un crisantemo udì
le parole di lei ed esclamò con tanta ironia: “Oh, oh! Avete sentito?” che essa
ebbe da venir fuori e mostrarsi. Allora tutto il regno vegetale rimase piuttosto
imbarazzato circa il da fare.
— Veramente non è affar nostro — disse alla fine una fusaggine dopo una
lunga discussione a bassa voce, — ma tuttavia Lei sa benissimo che non
dovrebbe esser qui, e forse il “nostro dovere è di andarlo a dire alle fate; che cosa
ne pensa Lei stessa?
— Io penso di no — rispose Maimie, e questa risposta li piombò di nuovo in
un tale imbarazzo, che, non sapendo più cosa dire, le usarono la sconvenienza di
replicarle che non si poteva ragionare con lei.
— Io non domanderei Loro di non farlo, se non lo credessi mal fatto —
spiegò allora pazientemente Maimie; e, senza dubbio, dopo questa spiegazione,
essi non potevano più andare a fare la spia. Perciò esclamarono: “Ahimè!” e
“Così va la vita!” perché essi possono anche mostrarsi terribilmente sarcastici.
Ma Maimie sentiva compassione per quelli fra loro che non avevano trampoli e,
buona com’era di cuore, invece di prendersela, propose:
— Prima che io vada al ballo delle fate, amerei prenderli con me per una
passeggiata, uno alla volta; Loro possono appoggiarsi a me, sanno? —
A queste parole essi batterono le mani e Maimie li condusse a passeggio su e
giù per il viale dei Bimbi, uno alla volta, cingendo il braccio oppure il dito
attorno alla vita ai più esili, badando a raddrizzare la loro andatura quando
camminavano storti o sbilenchi in una maniera troppo ridicola, e trattando i
forestieri con la stessa identica cortesia che gl’indigeni, sebbene non potesse
capire una parola di ciò che essi dicevano.
Essi in complesso si comportarono bene e furono contenti, nonostante che
alcuni si lamentassero sottovoce che essa non li aveva condotti a passeggio così a
lungo come aveva fatto con Nancy o Grace o Dorotea, e qualche altro la bucasse,
senza volerlo del resto, e senza che lei dicesse mai “Ohi!” perché era troppo
compita per farlo. Tutte queste passeggiate le presero molto tempo, ed essa era
ansiosa di mettersi in via per il ballo. Non provava più nessuna paura, e la
ragione perché non provava più nessuna paura, era questa, che ormai s’era fatta
notte, e di notte, voi lo ricordate, Maimie era sempre una bambina piuttosto
straordinaria.
Adesso tutti quei vegetali non la volevano più lasciare andar via: “Se le fate
la vedono” le dicevano, “le faranno del male: la uccideranno, o la costringeranno
a far loro la serva, o la trasformeranno in qualche cosa di spiacevole, in una
querce sempre verde, per esempio”. Così dicendo affettavano di guardar con
pietà una querce sempre verde, perché nell’inverno tutti i vegetali che perdono
le loro foglie sono invidiosi dei sempreverdi.
— Oi là! —ribatté la querce con maligna sodisfazione — com’è
deliziosamente dolce di star qui abbottonati sino al collo a veder voi, povere
creature nude, che rabbrividite dal freddo! —
Questo fece prendere loro una gran bile, nonostante che se lo fossero voluto,
ed essi fecero a Maimie una pittura addirittura terrificante di tutti i pericoli che
l’attendevano se si fosse ostinata a voler andare al ballo.
Essa apprese da un’avellana purpurea che presentemente a corte non c’era
più il consueto buonumore, e che la causa n’era il cuore del Duca delle
Margherite afflitto dal male del ghiaccio. È questo un terribile male che consiste
nella incapacità di amare, ed il povero Duca, benché avesse girato molte corti,
non s’era potuto mai innamorare di nessuna fra le tante dame vedute. Adesso
era capitato anche nei giardini di Kensington, e la regina Mab aveva nutrito
fiducia che le damigelle della sua corte lo avrebbero tosto guarito; ma invece il
cuore di lui — diceva il dottore — rimaneva sempre freddo. Questo dottore un
po’ irritante che era il suo medico particolare, appena qualche dama era stata
presentata al Duca, si affrettava a sentire il cuore di questo, e invariabilmente
scoteva la calva sua testa e annunziava: “Freddo, freddissimo”. Naturalmente la
regina Mab ne era afflitta e umiliata non poco, e prima aveva ordinato alla corte
di mettersi in lacrime per ben cinque minuti, e poi aveva rivolto dei severi
rimproveri agli Amori e decretato che dovessero portare delle berrette da matti
coi sonaglini attaccati, finché non fossero riusciti a fare sgelare il cuore ghiacciato
del Duca.
— Oh!, quanto mi piacerebbe di vedere gli Amori con le loro berrettine da
matti in sul capo! — esclamò Maimie e corse via per cercarli, ripromettendosi di
rider di gusto: molto imprudentemente, perché gli Amori si offendono di esser
burlati.
È sempre facile di scoprire dove vien tenuto un ballo di fate, perché tra il
luogo del ballo e tutti i punti dei giardini dalle fate abitati sono stesi dei nastri, su
cui le dame possono recarsi alla festa senza bagnare né sporcare i loro strascichi.
Quella notte i nastri erano rossi e facevano un molto bell’effetto sopra la neve.
Maimie camminò lungo uno di essi un pezzetto senza incontrare nessuno,
ma alla fine distinse un corteo che si avvicinava, ed ebbe giusto appena il tempo
di piegare i ginocchi estendere innanzi le braccia fingendo di essere una poltrona
da giardino.
A sua sorpresa, il corteo sembrava ritornare dal ballo. Sei cavalieri
formavano la testa e altri sei la coda di esso. Nel mezzo camminava una prima
dama con una veste dal lunghissimo strascico tenuto su da due paggi, e sopra lo
strascico stesso come se fosse una portantina era adagiata una graziosa fanciulla,
perché questa è la maniera in cui le fate dell’aristocrazia vanno in giro. La bella
fanciulla indossava una magnifica veste azzurra trapunta d’oro e d’argento, che
avrebbe reso perfettamente felice Maimie, ma non rendeva tale di certo la
piccola dama, la quale al contrario appariva tutta triste e piangente. Un’aria
piuttosto adirata avevano invece i membri del suo seguito, che arricciavano i
loro piccoli nasi più di quel che la prudenza anche alle fate consiglia, e da tutto
questo Maimie fu indotta a concludere che doveva trattarsi di un altro caso in
cui il dottore aveva annunziato: “Freddo, freddissimo”.
Bene, passato che fu il corteo, essa continuò a seguire il suo nastro, fino a un
punto in cui questo si trasformava in un ponte sopra una pozza, dentro la quale
un’altra fata era caduta senza poterne più uscire. Dapprincipio la piccola
creatura ebbe spavento di Maimie, che molto gentilmente si disponeva a
soccorrerla, ma poco, dopo sedeva del tutto rassicurata nel grembo di lei,
chiacchierando gaiamente e spiegandole che il suo nome era Bruna e che,
sebbene non fosse se non una povera cantatrice di strada, pure era anch’essa
diretta al ballo, dove la conduceva il desiderio di provare se il Duca
s’innamorasse di lei.
— Certo però — disse in fine, facendosi improvvisamente un po’ triste, — io
sono piuttosto mal messa; — e questa confessione commosse molto Maimie,
perché veramente la povera piccina era mal vestita per una fata.
Era difficile trovare qualche cosa da rispondere.
— Io vedo che anche Lei pensa che non ci debbo sperare — soggiunse Bruna
con rassegnata umiltà.
— Io non dico questo — rispose allora cortesemente Maimie; — senza
dubbio la sua toilette è un pochino troppo modesta, ma... — Davvero, era proprio
un peccato che la simpatica fatina non avesse un vestito più elegante da mettersi.
Per fortuna Maimie si ricordò in buon punto un’osservazione del babbo.
Questi l’aveva una volta condotta a una gran fiera di beneficenza, dove tutte le
più eleganti signore di Londra erano in vista per il modico prezzo di tre lire, e di
ritorno a casa, invece di non esser più soddisfatto della mamma, aveva detto a
essa, contemplandola amorosamente: “Tu non ti puoi immaginare, mia cara, che
sollievo sia di tornare a vedere una giovine signora vestita con un po’ di
semplicità!”
Maimie raccontò questo fatto, e la piccola Bruna ne restò maravigliosamente
incuorata, tanto da non nutrire più il minimo dubbio che il Duca si sarebbe
innamorato di lei. E subito corse via sopra il nastro, gridando a Maimie di non
seguirla, se non voleva che la regina ne la facesse pentire.
Ma la curiosità era troppo forte e spinse innanzi Maimie, i cui occhi vennero
alla fine colpiti da una luce meravigliosa che brillava tra i sette grandi castagni.
Essa continuò ad avanzare pian piano senza far rumore, sinché non ebbe
raggiunto il meno discosto tra i sette, ed allora fece prudentemente capolino di
dietro il grosso tronco.
La luce, che era alta da terra tanto quanto la vostra testa, era formata da
miriadi di lucciole (per le fate le lucciole ci sono anche d’inverno), che si
tenevano tutte strette e serrate l’una accanto dell’altra, così da formare un
baldacchino abbagliante sopra il cerchio delle fate. Fuori del cerchio, tutto
all’intorno, si affollavano altre fate a migliaia, ma erano figure scialbe, in
mezz’ombra, a paragone delle splendide creature nell’interno del cerchio
medesimo, le quali sfolgoravano tanto che Maimie doveva batter le palpebre
tutte le volte che le guardava.
Era cosa che la empiva veramente di stupore e nello stesso tempo di stizza il
fatto che il Duca delle Margherite potesse restare anche un solo momento senza
innamorarsi; eppure Sua Altezza Noia restava ancora indifferente: si poteva
capirlo dalla tristezza e dall’umiliazione dipinta negli sguardi della regina e di
tutta la corte (nonostante che volessero darsi l’aria di non curarsene), dal fatto
che ogni bella damina novellamente condotta dinanzi a lui per ottener la sua
approvazione cedeva subito il posto ad un’altra, scoppiando in pianto dirotto, e
dalla stessa faccia scura e malinconica dell’incontentabile principe.
Maimie poteva anche vedere il solenne dottore che sentiva il cuore del Duca,
e udirlo poi emettere il suo pappagallesco responso, ed era particolarmente
angustiata per la sorte dei poveri amori, che se ne stavano rincantucciati colle
loro berrettine da matti in sul capo in un angolo oscuro e ogni volta che udivan
ripetere: “Freddo, freddissimo!” abbassavano vergognosamente le loro piccole
teste.
Essa rimase tuttavia delusa di non vedere Peter Pan, ma io sono in grado di
dirvi perché mai egli ritardasse tanto quella notte. La ragione fu che la sua barca
s’era impigliata tra i campi di ghiaccio erranti sulla Serpentina, attraverso ai
quali egli dovette aprirsi un pericoloso passaggio coll’aiuto del fedele suo remo.
Le fate avevano sin allora sentito poco la sua mancanza, perché non
potevano ballare, tanto pesanti erano i loro cuori. Esse dimenticano tutti i passi
quando sono afflitte, e se li ricordano di nuovo quando tornano liete. David mi
afferma che le fate non dicono mai: “Siamo di buon umore”; dicono invece:
“Siamo d’umor ballerino”. Bene, esse si sentivano veramente d’umore assai poco
ballerino, quando a un tratto echeggiò un generale scoppio di risa da parte degli
spettatori, causato da Bruna, che era giusto arrivata e insisteva nel suo diritto di
esser presentata al Duca.
Maimie si sporse vivamente innanzi per vedere come la sua amica riusciva,
benché in realtà non ci fosse luogo a speranza: nessuno pareva che credesse alla
possibilità del successo, salvo Bruna stessa, che, nonostante tutto, si manteneva
completamente fiduciosa. Essa fu condotta dinanzi a Sua Altezza, e il dottore
poggiò delicatamente il dito sopra il cuore ducale (per comodità, era stata
praticata nel petto una porticina d’accesso), e aveva già cominciato a dire
meccanicamente: “Freddo, fred...” quando bruscamente s’arrestò.
— Che è questo? — esclamò, e scosso un po’ il cuore come un orologio, vi
poggiò sopra l’orecchio.
— Oh, oh, oh! — esclamò di nuovo il dottore, e frattanto l’ansia tra gli
spettatori era tremenda e molte fate svenivano a destra e a sinistra.
Tutti tenevano gli occhi fissi sul Duca, dimenticandosi perfino di tirare il
respiro, mentre Sua Altezza appariva molto spaventata ed aveva l’aria di una
persona che sarebbe molto volentieri scappata di lì.
— Dio di misericordia! — fu la terza esclamazione del dottore, e adesso il
cuore doveva addirittura bruciare, perché egli ne ritrasse rapidamente le dita
per ficcarsele in bocca.
L’attesa era immensa.
Allora con un profondo inchino e con voce sonora il medico solennemente
annunziò:
— Altezza, io ho l’onore di informarla che Ella è in amore. —
Voi non potete immaginarvi l’effetto prodotto da queste parole. Bruna aprì le
braccia al Duca e questi vi si gettò dentro; la regina si gettò fra le braccia del
Gran Maggiordomo, e allora tutte le dame di corte si gettarono in quelle dei loro
rispettivi cavalieri, perché l’etichetta vuole che si segua in ogni cosa l’esempio
della regina. Così in un solo momento ebbero luogo più di cinquanta matrimoni,
perché tra le fate le nozze si fanno appunto in tal modo: la signorina si getta fra
le braccia del signore o viceversa, e tutto è fatto. Senza dubbio bisogna che sia
presente il sindaco, ma esso era tra gl’invitati.
La folla degli spettatori non poteva più star ferma dalla gioia. Venne fuori la
luna, e immediatamente un migliaio di coppie s’impadronirono dei suoi raggi
come se fossero nastri per una danza di maggio, e cominciarono a ballare con
disordinato abbandono attorno al cerchio della corte. Ma la vista più allegra di
tutte la offrivano gli Amori che s’erano strappati di capo le berrettine coi sonagli
e si divertivano a gettarle per aria, saltando e gridando come se fossero
ammattiti davvero. E allora Maimie venne fuori e guastò ogni cosa.
Essa non potè trattenersi. Era sì lieta della buona fortuna toccata alla sua
piccola amica che bisognava glielo dicesse. Fece dunque alcuni passi innanzi, ed
esclamò come in estasi:
— Oh Bruna, come sono contenta! —
Tutti si fermarono, la musica tacque, i lumi si spensero, e tutto ciò in meno
tempo che non s’impiega a dir: “Ohi!”. Un angoscioso sentimento del pericolo in
cui si era messa s’impadronì di Maimie; troppo tardi essa si ricordò che era una
bimba sperduta in un luogo dove a nessun essere umano è lecito di restare tra la
chiusura e la riapertura dei cancelli; udì il mormorio minaccioso di un’adirata
moltitudine; vide centinaia di spade brillare assetate del suo sangue, gettò un
grido di terrore e fuggì.
Come correva! e i suoi occhi pareva le volessero schizzar via dalla testa.
Parecchie volte inciampò e cadde, ma sempre immediatamente balzava di
nuovo in piedi e riprendeva la corsa. La sua piccola mente era così occupata dal
terrore, che essa non sapeva più che si trovava nei giardini e non poteva più
uscirne sino alla mattina seguente. L’unica cosa che sapesse era che non doveva
mai smettere di correre sinché non fosse arrivata a casa. E quando fu giunta alla
Camera dei Pari le parve di riconoscere il suo letticciuolo e si stese giù sfinita a
dormire. I fiocchi di neve che cadevano sulla sua faccia erano i baci della
mamma che le dava la buona notte. La coperta di neve era la sua coperta di lana,
ed essa voleva tirarsela fino sopra la testa. E allorché tra il sonno udì persone a
discorrere pensò fosse la mamma venuta col babbo a veder se dormiva. Ma
erano invece le fate.
Io son molto contento di potervi dire che le fate non avevano desiderato a
lungo di farle del male. Quando essa era fuggita, avevano lacerato l’aria con
acute grida di questo genere: “Ammazziamola!” e così via, ma l’inseguimento
era stato ritardato dal fatto che prima era bisognato discutere chi doveva stare
alla testa, e questo aveva dato tempo alla Duchessa Bruna di portarsi dinanzi alla
regina e domandare una grazia.
Tutte le novelle spose hanno diritto a una grazia, e quella che essa domandò
fu la vita di Maimie. “Qualunque cosa eccetto questa” rispose bruscamente la
regina Mab, e tutte le altre fate fecero eco: “Qualunque cosa eccetto questa”. Ma
quando ebbero appreso come Maimie era stata gentile con Bruna, sì da metterla
in grado di venire al ballo a grande gloria e rinomanza di tutte, esse mutarono
tosto di sentimenti, e, gridati tre urrà per la piccola umana, si misero in marcia
come un esercito per andare a ringraziarla. In fronte avanzava la corte e il
baldacchino veniva alla pari con essa. Maimie fu rintracciata facilmente a causa
delle impronte lasciate dai suoi piedi nella neve.
Ma, sebbene la trovassero affondata nella neve dentro la Camera dei Pari,
tornò loro impossibile di porgerle in effetto le decretate grazie, perché non
furono capaci di risvegliarla. Adempirono alla forma, vale a dire che il nuovo Re
montò sul corpo di lei e le lesse un lungo indirizzo di lieta accoglienza, ma essa
non udì una sola parola. Fu anche sbarazzata dalla neve che la copriva, ma
presto dell’altra neve l’aveva coperta di nuovo; e apparve chiaro che essa
correva pericolo di morire di freddo.
— La trasformino in qualche cosa che non soffra il freddo — suggerì allora il
dottore; ma l’unica sorta di cose di cui esse sapevano che non soffrivano il
freddo, erano i fiocchi di neve. — Ed un fiocco di neve può sciogliersi — spiegò
la regina, cosicché quest’idea dovette essere abbandonata. Fu fatta la prova di
trasportarla in un luogo più riparato, ma sebbene fossero lì in tanti, essa era
troppo pesante. Allora tutte le signore per la disperazione si misero a piangere
nei loro fazzoletti, ma finalmente gli Amori ebbero una magnifica idea.
— Costruiamole attorno una casa! — essi gridarono, e subito ognuno capì
che questa era la cosa da fare. In un attimo un centinaio di segalegna erano su
pei rami degli alberi, ed alcuni architetti correvano intorno a Maimie prendendo
le misure; un cantiere fu allestito ai suoi piedi, settantasette muratori
apportarono la prima pietra e le Loro Maestà assisterono al suo collocamento;
vennero nominati dei sorveglianti per tener lontani i ragazzi, sorsero le
impalcature, l’intero luogo echeggiò dello stridor delle seghe e del rimbombar
dei martelli, e ben presto il tetto era su ed i vetri venivano messi alle finestre.
La casa era esattamente della grandezza di Maimie, e infinitamente graziosa.
Uno dei bracci di Maimie giaceva disteso, e questa cosa per la durata di un
secondo aveva imbarazzato i costruttori, ma dopo essi avevano immaginato di
costruire lungo e attorno a quel braccio una galleria coperta, e così la difficoltà
era stata risolta. Le finestre e la porta erano certo troppo piccole perché Maimie
si potesse affacciare alle une od uscire dall’altra, ma, in compenso, le doveva
riuscir facile di affacciarsi ed uscire per di sopra sollevando il tetto. Le fate,
secondo è loro costume, battevano con gioia le mani per felicitarsi del loro
ingegno, ma erano così pazzamente innamorate della loro casina, che non
potevano sopportar di pensare d’averla finita. Perciò le vennero dando
numerosi ritocchi, e non si stancavano mai di pensarne dei nuovi.
Per esempio, due di esse si arrampicarono su per una scala portatile e
collocarono una banderuola col suo bravo galletto all’estremità posteriore del
tetto. Altri due non vollero esser da meno e presa un’altra scala collocarono sul
davanti un gran fumaiuolo.
— Adesso abbiamo paura che sia proprio finita — sospirarono.
Ma no, perché altri due ancora si arrampicarono alla loro volta su per la scala
e attaccarono al fumaiuolo un pocolino di fumo.
— Ora è certo finita — dissero con riluttanza.
— Non del tutto — obbiettò una lucciola; — se la bimba si sveglia così al buio,
senza un lumicino da notte, si può spaventare; io sarò il suo lumicino da notte.
— Aspetta un momento — disse un negoziante di porcellane cinesi; — io ti
darò una sottocoppa. —
Adesso, ahimè!, era assolutamente finita.
Nient’affatto, miei cari!
— Dio di misericordia! — esclamò un fabbro ferraio; — non c’è battente alla
porta! — E ce ne mise uno.
Un’altro aggiunse un raschiatoio per le scarpe, e una vecchia signora si fece
avanti con una stuoia per la porta. Poi dei pittori vollero pitturare le mura.
— Finita oramai, purtroppo finita!
— Finita? Come può esser finita — domandò sprezzantemente un fumista —
prima che ci sia messo il riscaldamento? — E ci mise il riscaldamento. Dopo
arrivò un esercito di giardinieri con carrette e con vanghe, e semi e bulbi e
piccole serre, e presto ci fu un giardinetto di fiori dalla parte di qua della galleria
coperta e un orticello dalla parte di là, e rose e clematidi su per le mura della casa,
ed in meno di cinque minuti tutte le piante erano in pieno fiore.
Ma adesso bisognava anche chiudere l’orto e il giardino col loro muricciolo e
l’inferriata di sopra ed il cancello d’ingresso: e questo pure fu fatto.
Oh com’era bella ora la piccola casina! Ma era anche terminata! davvero
senza più nessuna speranza, e le fate avevano a lasciarla e tornare al loro ballo.
Tutte nell’andar via le gettarono baci con le mani, e l’ultima a partire fu Bruna.
Essa si fermò un momento più degli altri per calar giù attraverso la gola del
camino un bel sogno dorato.
Durante tutta la notte la maravigliosa casina stette lì nella Camera dei Pari a
protegger Maimie, e questa non se ne accorse. Essa dormì fino a che il sogno non
fu tutto finito, e si svegliò che si sentiva deliziosamente riposata, giusto quando
il mattino rompeva il guscio del suo uovo, e allora chiamò a voce alta “Tony”,
perché credeva di essere a casa nella camera dei bimbi. Ma siccome Tony non
dava risposta, essa si levò su a sedere, la qual cosa fu causa che la sua testa
urtasse contro il tetto e questo si sollevasse sul davanti come un coperchio, ed
allora, con suo grande stupore, essa vide dinanzi a sé i giardini di Kensington
tutti coperti e abbaglianti di neve. Vedendo che non si trovava nella sua stanza,
le venne il dubbio di non essere lei, e perciò si pizzicò le gote, il che la fece subito
sicura che era proprio lei, la qual certezza la fece poi alla sua volta risovvenire
della grande avventura in mezzo a cui si trovava. Si ricordò chiaramente di ogni
cosa che le era accaduta dalla chiusura dei cancelli sino al momento in cui si era
messa a correre disperatamente per isfuggire all’ira delle fate; ma come mai -
domandava a sé stessa - come mai si era rifugiata e fermata là dentro? Pian
pianino si rizzò un po’ di più, sorreggendo colle braccia alzate quello che
credeva il coperchio della grande scatola, e sollevando prima una gamba e poi
l’altra uscì fuori da un fianco e lasciò andare il coperchio, che ricadde. Poi, diritta,
si voltò. Allora vide che il luogo dove aveva passata la notte non era una scatola,
ma una deliziosa casina. E la vista di essa la rapì in tale estasi, che non le fu più
possibile di pensare a null’altro.
— Oh carina! oh carina! Oh che amore di casina! — esclamò giungendo le
mani.
Forse il suono di una voce umana spaventò la piccola casa, o forse pure essa
capì che il suo compito oramai era finito: fatto sta che Maimie non aveva ancora
terminato di dire, che la casina cominciò a diventare sempre più piccola;
s’impiccoliva così lentamente che Maimie dapprincipio ci poteva appena credere:
ma presto potè notare che essa non l’avrebbe contenuta più.
Rimaneva sempre intera egualmente, ma seguitava di continuo a impiccolire
e il giardino impiccoliva nello stesso tempo esso pure, e la neve s’insinuava
sempre più accosto, avviluppando la casa e il giardino. Oramai la casina non era
più grande della cuccia di un piccolo cane; oramai non era più grande di una
scatola da bambola, ma sempre voi avreste potuto vedere il fumo del camino e la
banderuola col galletto e il battente della porta e le rose dei muri, tutto insomma,
al completo. Il lume della lucciola si andava indebolendo, ma esso pure era
ancor lì. — Cara, amore, no, non sparire! — supplicò Maimie cadendo in
ginocchio, perché la casina aveva ormai la grandezza di un rocchetto di filo,
nonostante fosse sempre completa. Ma nel tempo che essa stendeva implorando
le braccia, la neve sembrò restringersi sempre più intorno alla casina finché si
riunì, e dove la casina era stata non fu più che una ininterrotta superficie di neve.
Maimie batté i piedi indispettita e si fregò i pugni contro gli occhi, ma,
mentre faceva questo, udì una vocina gentile che diceva: “Non piangere, piccola
creatura umana, non piangere” e allora essa si voltò togliendosi i pugni di su gli
occhi e vide un grazioso piccino tutto ignudo che la guardava con pensosa
attenzione. E capì subito che doveva essere Peter Pan.
VI.
La capra di Peter
MAIMIE si sentiva addosso una gran timidezza, ma Peter non sapeva
neppure che cosa fosse timidezza.
— Spero che abbia passato bene la notte — egli s’informò gentilmente.
— Oh, sì, grazie — essa rispose, — sono stata così comoda e calda. Ma Lei —
e, così dicendo, con poco tatto accennava dello sguardo alla sua nudità — ma Lei
non sente freddo?
Freddo era un’altra parola che Peter aveva dimenticato, e perciò rispose:
— Io non credo, ma potrei sbagliarmi: Lei vede che io sono un pochino
ignorante. Io non sono propriamente un bambino: Salomone dice che io sono un
Forse-che-sì-forse-che-no.
— Cosicché questo è il nome che Le vien dato — disse Maimie con aria
pensierosa.
— Questo non è il mio nome — egli spiegò; — il mio nome è Peter Pan.
— Sì, senza dubbio — essa disse, — lo so, ogni persona lo sa.
Voi non vi potete immaginare quanto piacere facesse a Peter l’apprendere
che tutte le persone al di là dei cancelli sapevano di lui. Egli pregò Maimie di
dirgli che cosa esse sapevano e che cosa dicevano, e Maimie soddisfece il suo
desiderio. Frattanto si erano seduti sopra un albero caduto; Peter ne aveva
sgombrato dalla neve un tratto per Maimie, ma quanto a sé s’era assiso sopra un
punto non sgombro.
— Si faccia più accosto — disse Maimie.
— Che cosa vuol dire? — egli domandò. Allora essa glielo mostrò ed egli lo
fece.
Dunque, essi chiacchierarono insieme ed egli trovò che la gente sapeva una
gran quantità di cose intorno a lui, ma non tutto, non che era tornato dalla
mamma e aveva trovato la finestra sbarrata, per esempio, e di ciò non disse nulla
a Maimie, perché la cosa ancora lo umiliava.
— Sa la gente che io giuoco esattamente come i veri bambini? — domandò
con orgoglio.
— Oh, Maimie, raccontaglielo, ti prego! — Essi avevano ormai fatto amicizia
e deciso di darsi del tu.
Ma quando egli le mostrò come giocava, facendo galleggiare e guidando pel
manico il suo bicchierino di latta sul Lago Rotondo, e così via, essa restò
semplicemente inorridita.
— Tutte le tue maniere di giocare — osservò guardandolo con due grandi
occhi pieni di stupore — sono del tutto, del tutto sbagliate, e non rassomigliano
affatto a come giuocano i bimbi. —
Il piccolo Peter emise un piccolo lamento a sentir questo, e, per la prima volta
da non so quanto tempo, gli corsero giù delle lacrime per le gote. Maimie provò
molta pena per lui e gli prestò il suo fazzoletto, ma egli non sapeva affatto che
cosa farne, cosicché essa dovette mostrarglielo, vale a dire che si asciugò gli
occhi, e poi gli porse il fazzoletto di nuovo, dicendo: “Ora fallo tu”; ma Peter,
invece di asciugare i suoi propri occhi, asciugò quelli di lei, ed essa allora pensò
che era meglio far finta di nulla e lasciargli credere che aveva inteso giusto:
Sentiva tanta pietà per lui che non potè trattenersi dal dirgli: “Se vuoi, ti do
un bacio”; ma, sebbene un tempo egli avesse saputo che cosa sono i baci, oramai
lo aveva dimenticato da un pezzo, cosicché rispose: “Grazie”, e stese la mano,
credendo che si fosse offerta di metterglici dentro alcunché. Questo fu un gran
colpo per lei, ma essa tuttavia sentì che non poteva spiegargli meglio la cosa
senza farlo vergognare, e perciò con delicatezza squisita gli pose in mano o,
meglio, infilò in dito un piccolo ditale che per caso si trovava in una delle sue
tasche, dandogli a credere che quello fosse un bacio. Povero piccino! Egli le
credette ciecamente e ancor oggi per ricordo porta in dito il piccolo ditale,
nonostante che qualche volta si sia domandato con meraviglia perché mai i veri
bimbi s’infilino in dito un oggetto così impaccioso. Ma voi, come Maimie, dovete
mostrarvi indulgenti verso la sua ignoranza: sebbene fosse sempre tanto piccino,
pure in realtà erano passati anni e anni dacché per l’ultima volta aveva rivisto
sua madre, e il bambino da cui era stato sostituito doveva essere ormai un bel
pezzo di uomo con tanto di baffi: salvo che non li portasse, per seguire la moda.
Non dovete tuttavia pensare che Peter Pan fosse un bimbo piuttosto da
compiangere che da ammirare; se Maimie cominciò col pensarlo, presto trovò
che si era di molto sbagliata. I suoi occhi brillarono d’ammirazione quando egli
le raccontò delle sue avventure, e specialmente del come egli passasse
continuamente dall’isola ai giardini e dai giardini nell’isola dentro il suo nido di
tordo.
— Com’è romantico tutto ciò! — esclamò essa, ma quella era un’altra parola
sconosciuta per Peter, e il povero piccino abbassò mesta mente la testa credendo
che essa lo burlasse.
— Tony non lo farebbe, non è vero? — domandò con grande umiltà.
— Oh no, mai, mai! — essa rispose con convinzione; — è troppo pauroso!
— Come si fa ad esser paurosi? — chiese subito Peter con un ardore di
desiderio che Maimie scambiò per isdegno. Egli s’immaginava che l’esserlo fosse
una cosa assai bella. — Tu mi dovresti insegnare come si fa, se sei buona,
Maimie!
— Io non credo che nessuno sia buono di insegnartelo — Maimie rispose con
adorazione, ma Peter pensò che lo credesse troppo stupido. Essa gli aveva già
parlato di Tony e adesso gli raccontò delle malignità che lei immaginava per
ispaventarlo la notte (la signorina sapeva benissimo che erano delle malignità),
ma Peter fraintese il senso delle sue parole ed esclamò:
— Oh quanto bramerei d’avere il coraggio di Tony!
Ciò finì coll’irritarla.
— Tu hai mille volte più coraggio di Tony — proruppe spazientita; — anzi,
io non conosco nessun bambino che abbia tanto coraggio quanto te. —
Egli non poteva credere che essa lo pensasse davvero, ma, quando Maimie
glielo ebbe solennemente assicurato, non potè trattenere un grido di gioia.
— E se desideri molto di darmi un bacio — Maimie aggiunse, — puoi
benissimo darmelo.
Con molta riluttanza Peter cominciò a sfilarsi dal dito il piccolo ditale. Egli
credeva che essa lo rivolesse addietro.
— Non volevo dire un bacio — essa s’affrettò a correggere, — ma un ditale.
— Che cos’è un ditale? — chiese Peter.
— È questo — essa disse, e lo baciò.
— Desidero davvero di darti un ditale — dichiarò Peter gravemente, e glielo
dette. Anzi gliene dette una gran quantità, e poi una magnifica idea gli sorse
nella mente.
— Maimie — disse, — ci vogliamo sposare?
Orbene, strano a dirsi, la medesima idea era venuta proprio nel medesimo
istante in mente a Maimie.
— Volentieri — essa rispose, — ma ci sarà posto nella tua barca per due?
— Se ti stringi accanto a me, sì — egli si affrettò a dichiarare.
— Ma gli uccelli ne saranno contenti? —
Egli assicurò che gli uccelli sarebbero stati contentissimi di averla per ospite,
sebbene io non sia convinto ch’egli lo sapesse di certa scienza, aggiungendo che
del resto, siccome si era d’inverno, d’uccelli non ve n’erano molti.
— Senza dubbio però — egli dovette ammettere con un po’ d’esitazione —
può darsi che ti chiedano le vesti.
Essa non accolse con punto piacere questa prospettiva.
— Le mie vesti? Oh no davvero! E per che farne, se è lecito?
— Essi hanno sempre in mente i loro nidi — egli spiegò a mo’ di difesa, — e
ci sono certe parti del tuo abbigliamento — così dicendo passò sfiorando la
mano sopra il pelo della cappottina — che ecciteranno molto i loro desiderii.
— Oh! ma non lo avranno davvero il mio pelo! — essa affermò bruscamente.
— S’intende — egli rispose, seguitando tuttavia ad accarezzarlo, — s’intende.
— Oh! Maimie! — esclamò a un tratto con estasi, — sai tu perché t’amo? Perché
rassomigli un bel nido. —
Questo poi, non so come, la inquietò affatto.
— A me pare che tu parli più da uccello che da bimbo ora — osservò
tirandosi addietro; e realmente egli aveva un non so che d’uccello nel suo
aspetto. — Già, dopo tutto, non sei che un Forse-che-sì-forse-che-no. — Ma
questo lo ferì tanto che essa aggiunse immediatamente: — Del resto, dev’essere
una cosa deliziosa di esserlo.
— Vieni e diventa anche tu uno, allora, diletta Maimie — egli la implorò, e
tutti e due si misero in cammino verso la barca, perché era ormai assai vicina
l’ora della riapertura dei cancelli.
— Non rassomigli mica punto ad un nido, sai? — egli le susurrò strada
facendo, per riparare allo sbaglio di prima.
— Ma io credo che dev’essere anzi carino di rassomigliare ad un nido —
ribatté essa con lo spirito di contraddizione proprio delle donne. — E, Peter mio
caro, sebbene io non possa dare agli uccelli il mio pelo, non mi opporrò se
vorranno costruirci in mezzo. Immaginati un nido nel mio bavero con i suoi
piccoli uovi picchiettati dentro! Oh Peter, quanto ha da esser grazioso! —
Ma, come furono in vista della Serpentina, essa rabbrividì un pochino, e
disse:
— Senza dubbio però io dovrò andare spesso a veder la mia mamma, molto
spesso. Non è come se dicessi addio per sempre alla mia mamma, non è
nient’affatto così.
— Oh certo che non è così! — la rassicurò Peter, ma nel suo cuore egli sapeva
benissimo che invece era proprio così, e glielo avrebbe voluto anche dire, ma
tremava troppo di perderla. Era tanto innamorato di lei, sentiva che non avrebbe
potuto vivere senza. “Col tempo dimenticherà sua madre e sarà felice con me”
disse, per calmare la sua coscienza, a sé stesso, e, passato il braccio attorno alla
vita della sua sposa, la trascinò innanzi dolcemente, fermandosi tuttavia per
darle un bacio ogni tanto.
Ma, anche quando essa ebbe vista la barca, e dimostrata un’ammirazione
entusiastica per la sua leggiadria, anche allora il pensiero della mamma non
voleva lasciarla e la rendeva esitante e dubbiosa.
— Tu sai benissimo, non è vero, Peter, che io non verrei, se non sapessi per
certo che posso tornare dalla mamma tutte le volte che voglio? Non è vero, Peter?
Tu me lo assicuri che ci posso contare? — Egli tornò ad assicurarglielo, ma non
potè guardarla in faccia.
— Quasi tu fossi certa che tua madre desidererà sempre di rivederti! —
aggiunse un pochino acremente.
— Quale idea che mia madre possa mai non desiderare di rivedermi! —
esclamò Maimie, diventando di porpora in viso.
— Chi sa che un giorno o l’altro non t’abbia a chiudere fuori! — spiegò Peter
tossendo.
— La porta di casa— replicò Maimie — sarà sempre, sempre aperta, e mia
madre starà sempre sulla soglia ad attendermi.
— Allora — disse Peter, non senza malumore, — monta dentro se ti senti
così sicura di lei; — e aiutò Maimie ad entrare nel nido di tordo,
— Perché non mi guardi in viso? — essa chiese prendendolo per il braccio.
Ma Peter rimase muto e seguitò a sfuggire il suo sguardo; poi tutt’a un tratto
con una viva mossa liberò il proprio braccio, saltò novamente a terra e si sedette
giù sulla neve in attitudine di grande abbandono.
Essa lo seguì e gli si pose vicino.
— Che cos’hai, caro, caro Peter? — gli domandò maravigliata.
— Oh Maimie! — egli rispose piangendo — non è bello di prenderti con me,
facendoti credere che potrai tornare addietro. Ma la tua mamma... — e qui un
grosso singhiozzo lo interruppe; — tu non le conosci così bene come le conosco
io le mamme! —
E allora le raccontò la dolorosa storia del come egli era stato chiuso fuori, ed
essa lo ascoltò col respiro sospeso.
— Ma la mia mamma — prese a dire, quando egli ebbe finito — la mia
mamma…
— Oh sì, lo farebbe anche lei! — la interruppe Peter. — Son tutte uguali. Chi
sa che non istia già ora pensando a sostituirti!
— Oh no, non posso crederlo! — esclamò Maimie impaurita. — Vedi,
quando tu la lasciasti, la mamma tua rimase sola, ma la mia ha sempre Tony e
certamente esse son soddisfatte, quando n’hanno già uno.
— Dovresti vedere le lettere che Salomone riceve da signore che ne hanno
già sei! — replicò Peter con amara ironia.
Giusto in questo momento essi udirono uno stridente cric, seguito da altri
cric, cric tutt’attorno ai giardini. Era l’apertura dei cancelli, e Peter balzò con
nervosa risolutezza nella sua barca. Egli sapeva che ora Maimie non sarebbe più
voluta partire con lui e bravamente si sforzava di non piangere. Invece Maimie
singhiozzava ch’era una pena.
— Se dovesse essere troppo tardi! — esclamò con angoscia. — Oh Peter! Se
essa mi avesse già sostituito!... —
Di nuovo egli balzò a terra, come se lei lo avesse chiamato indietro.
— Io verrò e cercherò di te stanotte — le susurrò facendosele accanto; — ma
se corri via subito, io credo che arriverai ancora a tempo. —
Quindi egli depose l’ultimo ditale sulla dolce bocchina di lei, e si coprì la
faccia con le mani per non vederla andar via.
— Peter, amato Peter! - esclamò essa in pianto.
— Maimie, adorata Maimie! — esclamò il tragico eroe.
Essa si gettò fra le sue braccia, il che fu una specie di matrimonio fatesco, e
quindi corse via. Oh, con che fretta corse via in direzione del suo cancello!
Peter, potete immaginarlo, quella sera, appena sonata l’ora della chiusura,
era già di ritorno ai giardini, ma non vi trovò Maimie, e così capì che essa era
arrivata in tempo. Seguitò a sperar lungamente che una notte o l’altra sarebbe
tornata da lui; spesso gli parve anche di scorgerla che lo aspettava in riva alla
Serpentina, mentre la sua barca si avvicinava alla costa: ma Maimie non fece
ritorno mai più. Essa lo desiderava, ma temeva che, se avesse rivisto il suo caro
Forse-che-sì-forse-che-no, si sarebbe trattenuta con lui troppo a lungo, ed inoltre
la governante la teneva oramai molto d’occhio. Spesso tuttavia essa parlava con
amore di Peter, ed un giorno che andava pensando quale regalo di Pasqua egli
avrebbe gradito di più, sua madre le dette un suggerimento.
— Nulla — disse seriamente — nulla gli potrebbe riuscire più utile di una
capra.
— Infatti — confermò Maimie — egli potrebbe andarci sopra a passeggio e
nello stesso tempo suonare la sua zampogna.
— Allora — domandò la mamma — perché non gli regali la tua, delle capre,
quella con cui di notte fai spaventare Tony?
— Ma quella non è una capra vera! — obbiettò Maimie. —
— Sembra pur vera a Tony — replicò la mamma.
— Sembra terribilmente vera anche a me, anzi — ammise Maimie; — ma
come posso regalarla a Peter? —
La mamma sapeva il mezzo, e il giorno appresso la condusse ai giardini
insieme con Tony (che era realmente un fratello di cui si poteva andare
orgogliose, nonostante non fosse da paragonarsi con Peter); là Maimie si pose
diritta lei sola nel centro di un cerchio delle fate, ed allora la mamma, che era una
signora alla moda e perciò amava l’arte e s’intendeva di versi, le chiese:
— Maimie, Maimie,dimmi su,
Al tuo Pan che doni tu? —
Al che Maimie rispose:
— Io gli dono, mia mammina,
una bella caprettina. —
E, detto questo, disegnò nell’aria una capra, e poi, colle braccia distese, girò
su sé stessa tre volte.
Allora disse Tony:
— E se Pan la gradirà,
Con sé sempre la terrà?
E Maimie rispose:
— Sempre, Tony, te lo giuro,
Specialmente quand’è scuro! —
Essa lasciò anche, in luogo conveniente, una lettera per Peter, in cui spiegava
a questo che cosa aveva fatto e lo pregava di chieder alle fate che trasformassero
la capra in una adatta per andarci sopra a passeggio. E tutto seguì come essa
aveva sperato, perché Peter trovò la lettera, e senza dubbio nulla poteva esser
più facile per le fate che il trasformare la capra in una capra reale. Così dunque
accadde che Peter venne in possesso della capra sulla quale adesso passeggia pei
giardini ogni notte, suonando dolcemente sopra la sua zampogna. E Maimie
tenne la sua promessa e non fece spaventare Tony mai più con una capra,
sebbene io abbia inteso che ben presto ella creasse un’altra bestia per il
medesimo scopo. Essa continuò a lasciar nei giardini dei regali per Peter
(unitamente a lettere in cui spiegavagli il modo nel quale i bimbi giocavano con
quegli oggetti) sino quasi a che non fu diventata una signorina grande; e non è
già essa sola che abbia fatto ciò. Anche David lo fa, per esempio, anzi io e lui
conosciamo il luogo più adatto per lasciare i regali, e, se volete, potremo anche
dirvelo, purché non ce lo domandiate in presenza di Porthos, giacché questo va
così pazzo pei giocattoli, che se venisse a sapere dov’è il posto, non ce ne
lascerebbe mai uno.
Sebbene Peter non abbia mai dimenticato Maimie, è tuttavia tornato così
allegro com’era prima, e spesso per pura allegria si getta supino sull’erba e si
diverte a tirar calci all’aria. Oh!, egli ha una vita veramente felice! Ma conserva
ancora una vaga memoria del tempo in cui era una creatura umana, e ciò lo
rende specialmente gentile verso te rondini domestiche, quando vengono a
visitare l’isola, perché le rondini domestiche non son altro che gli spiriti dei
bimbi che muoiono. Questa è la ragione per cui fabbricano sempre i loro nidi sui
tetti delle case (quelle che hanno amato quando erano creature umane) e qualche
volta volano anche per le finestre aperte dentro le stanze.
E la casina? Ogni notte feriale (vale a dire ogni notte in cui non c’è ballo) le
fate la costruiscono ancora per paura che ci sia qualche piccolo essere umano
sperduto nei giardini, e Peter va attorno e perlustra tutte le regioni, e se ne trova
uno lo carica sulla sua capra e lo trasporta sino alla casina, e allora quand’esso si
sveglia ci si ritrova dentro e quando n’esce fuori la vede. Le fate costruiscono la
casina e poi se ne vanno e non tornano più, perché il loro divertimento è finito
quando l’han terminata, ma Peter, dopo fatto il suo giro, vi torna anche se non ha
trovato nessuno, e vi passa e ripassa davanti in memoria di Maimie, e perché
ama sempre egualmente di fare come crede che i bimbi veri farebbero.
Ma voi non dovete credere che, perché, ora in un punto ora in un altro, la
Casina brilla così spesso attraverso gli alberi, sia una cosa senza pericolo di
rimaner nei giardini dopo l’ora della chiusura.
Se per caso quella notte vi trova fuori e vi vede qualche fata maligna, essa vi
farà certamente del male, ed anche all’infuori di questo, voi potreste morire di
freddo e di paura pel buio, prima dell’arrivo di Peter. Parecchie volte egli è
arrivato troppo tardi, e, quando vede che è troppo tardi, allora torna subito
addietro fino al Nido di Tordo per pigliare il suo remo, del quale Maimie gli ha
spiegato il vero uso, e con esso scava una tomba per il povero bimbo, e poi ci
pone sopra una piccola pietra, sulla quale incide le iniziali del morto. Fa così
perché crede che così i bimbi veri farebbero, e voi dovete aver notato queste
piccole pietre, le quali sono sempre accoppiate. Egli mette sempre due bimbi
insieme, perché così si tengono compagnia. Io credo che la vista più
commovente dei giardini siano le due piccole tombe di Walter Stephen
Matthews e Phoebe Phelps. Stanno l’una accanto all’altra nel punto dove la
parrocchia di Santa Maria di Westminster confina con quella di Paddington.
Peter trovò lì i due bimbi che erano caduti dalle carrozzelle senza che le loro
governanti se ne accorgessero. Phoebe, la bimba, aveva tredici mesi e Walter era
probabilmente più giovane, e pare appunto che sia stato per un senso di
delicatezza che Peter ha tralasciato d’indicare l’età di lui sulla tomba. Essi
giacciono dunque insieme e le iscrizioni delle due piccole pietre dicono
semplicemente:
David qualche volta depone dei fiori bianchi su queste due innocenti tombe.
Ma, strano a dirsi, nessuno ha mai visto i genitori di Phoebe e di Walter
venire a visitare essi pure le tombe dei loro poveri bimbi! David se ne maraviglia
moltissimo. Tutto ciò, bisogna dirlo, è piuttosto triste.
FINE
di J. M. BARRIE